CAPO VERDE - LUGLIO 2006

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Con circa quarant’anni di ritardo rispetto alle storiche note del grande Edoardo Vinello che esaltava le gesta del continente nero, decidiamo di saggiare in prima, anzi in quadrupla persona il fascino africano ed allora, pur non inoltrandoci in savane assolate, in foreste perigliose, in bush sterminati, abbandoniamo questo torrido luglio milanese per trattare una serie di isolotti di fronte al Senegal, ultima trovata vacanziera di quei furbacchioni del Ventaglio.

Le batterie del piccolo Tommy si esauriscono ben presto ma spegnere il Niccolò e soprattutto il suo infernale aggeggio trita neuroni denominato Game Boy è quasi impossibile, per cui con l’occhio perennemente pallato facciamo compagnia al primogenito durante il notturno sorvolamento del Mediterraneo e del successivo Atlantico.

Arriviamo ad Isla do Sal e prima che una sommossa popolare possa portare al linciaggio di uno zelante controllore di passaporti che pensa bene di bloccare per un cavillo burocratico 250 italiani già in ipertensione per la partita serale di mondiale importanza, saliamo su tre aggeggi che definire volanti sembrerebbe per lo meno enfatico.

La tensione è alle stelle, i passeggeri tesi e sbiancati trattengono il fiato durante la trasvolata che, pur durando un battito di ciglia, sembra un attraversamento infernale, che si conclude sull’isola di Boa Vista, meta finale raggiunta verso le locali 11 di mattina, non male per essersi alzati tredici ore prima.

Il villaggio è la tipica cattedrale nel deserto ed in questo caso l’immagine è quanto mai azzeccata: sembra che una parte del mare di sabbia che ricopre la Mauritania si sia spostato sull’isola, totalmente, completamente ed assolutamente brulla, riarsa inospitale tranne che tra le colorate mura e le chilometriche spiagge roggitate dalla sempre apprezzatissima organizzazione milanese.

I nostri buoni propositi di carattere limitativo per quanto concerne l’alimentazione si infrangono miseramente sui soliti, infiniti vassoi di leccornie varie, il tutto corroborato dalla settima flebo della mitica bevanda analcolica inventata dal farmacista di Atlanta che mi costringe ad un controllo anti-doping stile giocatore juventino dipendente da stupefacente Ero-in-A .

Da sottolineare inizialmente la figura della puericultrice del villaggio che piuttosto che essere la tipica animatrice del mini club sembra una adepta della setta per la selezione della specie visti i metodi a dir poco brutali con i quali intrattiene negli specchi acquatici del resort i marmocchi, tra i quali Tommy si distingue in versione bellicosa, iper-attiva, esplosiva e particolarmente ispirata.

Più che la religione si può ben dire che il pallone sia l’oppio dei popoli ed allora possiamo ben comprendere come non esistano differenze di sesso, di appartenenza politico-sociale, di campanile e di dialetto per unirsi al delirio collettivo a seguito dell’ingresso in finale della tanto discussa, malvista, criticata ma sempre più amata nazionale.

Ci svegliamo dopo un sonno praticamente infinito e proviamo l’ebbrezza, l’emozione e la ludicità di rotolare da una duna di sabbia finissima che si erge dal nulla al fianco della spiaggia, esperienza da raccontare ai nipoti evitando però i dettagli delle conseguenze intestinali alla lauta colazione appena ingurgitata.

Note di plauso allo scrivente, più sgraziato e dinoccolato che mai, comunque molto volenteroso nel cercare di stare al passo coi tempi, o meglio al tempo coi passi dell’abile consorte in un patetico tentativo di approccio ai per lui primi tentativi col merengue.

Il detto tipicamente brianzolo “Lavoro, guadagno, pago, pretendo”, altre volte tanto auspicato in questo frangente proprio non può essere applicato in quanto abbiamo proprio tutto a portata di mano, di epidermide e di apparato digerente con esagerazione finale data dall’angolo della piscina dedicato all’ idromassaggio.

Dopo la prima, terrificante apparizione sul palcoscenico della ribalta dei balli sudamericani, riprovo con risultati altrettanto traumatici per la sventurata consorte, a dir poco ammutolita di fronte a cotanta maldestria ed allora penso di farla finita con questa triste e malvagia esistenza rischiando di essere risucchiato da flutti, marosi e cavalloni di questo pur affascinante Oceano Atlantico.

Penso di essere l’unico viaggiatore universale ad implorare l’arrivo della vendetta di Montezuma: mentre metà villaggio è alla prese con repentini e ripetuti giri ai servizi, io mi auguro di tutto cuore dopo una notte di inferno vero il sopraggiungere del tanto agognato sgaraus.

Oggi più che mai sole da spaccare le pietre, almeno quelle poche non ancora trasformatesi in quell’impalpabile polvere bianca che ci fa tanto contorno, paesaggio e cartolina, in un contesto comunque gestito con livelli di pulizia teutonici e necessaria siesta pomeridiana già sperimentata con successo in altre latitudini con il Ventaglio.

Botta di vita con aperitivo al tramonto dallo stile tipicamente ibizegno, con musica lunge, molto cool, particolarmente trandy, veramente glamour, estremamente fusion, positivamente underground.

Gettiamo un’occhiata fuori dal recinto, acchiappiamo un furgoncino e raggiungiamo la capitale dell’isola, un pugno di mattoni mal assemblati in un contesto di degrado, sporcizia ed estrema povertà, al cospetto comunque di abitanti molto dignitosi nonostante una realtà a dir poco senza futuro.

Giriamo un’oretta tra i vicoli che non hanno alcuna caratteristica e peculiarità, non riusciamo neanche volendo ad acquistare nulla causa mancanza totale di attività commerciali ma riusciamo ugualmente a rendere palpitante la giornata modificando il tragitto di rientro: posizionati Nicky, Tommy e papà sulla panchetta inchiodata nel cassone del pick up ci mettiamo nelle abili mani del driver afro-brasiliano e fendiamo una larga, desolata ed assolata parte del deserto al centro dell’isola per andare, nel nulla più assoluto a fotografare, immortalare e riprendere cinematograficamente parlando il relitto di una nave anch’essa attratta dalla bellezza selvaggia di queste spiagge al punto da andarsi ad arenare per rimanere per sempre legata a questo litorale.

Abbiamo vinto il mondiale, non è un sogno, non è un colpo di sole, non sono gli effetti allucinogeni di strani funghi, abbiamo veramente coronato un sogno che durava da un quarto di secolo, battendo ed irritendo i pseudo cugini francesi, molto più bistrattati ed odiati che compresi ed amati ed allora via ai festeggiamenti senza fine, senza regola, senza limiti, senza parole in una rapidissima diffusione del contagio calcistico tra tutti gli ospiti tricolori ancora increduli di cotanto prodigio.

L’atmosfera, già di per se assai ludica, prendi connotati entusiastici ed allora anche nei giorni a seguire si stagliano all’orizzonte le figure di signore altere, di omini goffi, di tatuati palestrati, di individui qualunque che si sottopongono ad ogni tipo di sacrificio e di derisione, il tutto per il sacro credo della vacanza, questa volta goduta non più in Africa e non ancora in Brasile, come decanta il motto della neonata repubblica indipendente di Capo Verde.