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Senza che l’inchiostro intinto nel calamaio utilizzato nel corso del nostro viaggio francese testè terminato sia ancora asciutto, iniziamo la redazione dei nuovi appunti in attesa della conferma dell’andata in stampa, o meglio dell’invio ai miei carissimi lettori, del capitolo concernente la scappatella agostana oltre confine.
Il tempo tecnico del cambio delle valigie, del riassetto delle nuances dell’abbigliamento ed eccoci, dopo qualche minimo disguido organizzativo causa ritardi aeroportuali, con le palpebre ben serrate a farci cullare dal rombo dei propulsori dell’aereo che ci porterà a bissare nel corso di questo 2007 lo sfioramento del terreno sul continente nero.
Sembra incredibile, quasi impossibile, ma anche solo per il necessario scalo tecnico di rifornimento, rivediamo la magica insegna di benvenuto della misteriosa ed affascinante isola di Zanzibar, che lasciamo per raggiungere dopo solo mezz’ora di saltino della quaglia a destinazione in Mombasa.
Il dovere di un cronista e di un reporter, sogni forse irraggiungibili cullati durante la decennale stesura dei presenti resoconti, mi dovrebbe costringere, deontologicamente parlando, a descrivere minuziosamente ciò che ci appare dopo il nostro arrivo in terra keniota ma onestamente trovo di una difficoltà pazzesca riuscire a trovare le parole per poter accennare alla miseria, alla povertà, all’indigenza, al nulla che ci circonda uscendo dalla seconda città del paese.
Per dirla fino in fondo non ho neanche il coraggio di impugnare la mia mano armata targata Nikon, guardo fuori dal finestrino, rimugino sull’esistenza terrena e penso, rifletto, medito….
Il concetto di politically correct è quanto mai in auge nell’attuale realtà progressista occidentale ed allora, senza alcuna preclusione classista, dobbiamo esaltare le doti del driver locale, cioccolatino extra fondente fratellino minore del galactico Hamilton arrivato in Formula Uno per sbancare il mercato, che con sorpassi da brivido, staccate all’ultimo istante, serpentine degne del miglior slalomista dolomitico ci conduce sulla INTERstate che lungo l’Oceano Indiano tra buche, crateri, fossette, gobbe, dossi ed ostacoli vari ha come direzione Malindi.
Nonostante tutto eccoci arrivati, mi sono consultato con il comitato di redazione dei pensatori fuori di testa, di cui sono presidente honoris causa, e ho deciso , ahimè per la prima delle detrattrici impersonificata dalla consorte, di proseguire con le descrizioni, i dettagli, gli appunti e gli spunti di viaggio sempre e comunque dalla mia “prospettiva bizzarra”.
Ora è arrivato il momento della confessione ed allora giurando di dichiarare la verità, tutta la verità, niente altro che la verità, ammetto di non essere azionista o partner strategico del Ventaglio, assicurando così la mia totale imparzialità di giudizio e di opinione. Temile Point è un gioiello, un mini villaggio con le rifiniture, il confort e l’eleganza di un resort che può benissimo assurgere a rilevanza continentale.
I pochi edifici, in stile prettamente indigeno, sono inseriti tra infinite varietà di piante esotiche, di fiori variopinti, di cespugli rigogliosi con vialetti curati millimetricamente il tutto in una atmosfera alquanto raffinata e sofisticata tenendo presente la posizione geografica di due gradi sotto l’Equatore.
Prendiamo possesso della location, accumuliamo qualche decina di megabyte nelle memorie delle digitali ed assistiamo allo spettacolo serale che si rivela veramente impressionante grazie alla forza fisica ed alle perigliose acrobazie di sei indigeni, molto simili ai cirtecopitechi che popolano il villaggio, in quanto praticamente disossati ed estremamente flessibili, compiono evoluzioni ginniche del tutto simili a quanto in uso tra i primati sugli alberi.
Stamattina ritengo di aver speso nel migliore dei modi di questi quasi miei 42 anni di vita dieci dollari, affidando il nucleo famigliare nelle mani di due beach boys che, parlando tricolore molto meglio del 95% dei nostri veri connazionali, ci hanno portato su di una spiaggia, ovviamente indicata come costa dell’amore, assolutamente da inserire sul podio da medaglia tra tutte quelle fotografate sul pianeta terra: eravamo in sei, sabbia color della neve, qualche scoglio ricoperto d’erba, fogliame ed arbusti verdissimi, cielo blu cobalto, acqua trasparente dell’Oceano ed il cocktail ottenuto servito fresco grazie ad una eccezionale spolverata di brezza marina.
La vita al villaggio è a dir poco sotto controllo da ogni punto di vista, i due pargoli monopolizzano nella sua totalità la piscina condominiale che stiamo seriamente pensando di acquistare, il percorso della triangolazione ristorante, camere, specchio d’acqua assolutamente irrisorio al punto che per cercare di bruciare qualche caloria, ovviamente ingurgitata in dose massicce, ci rendiamo disponibili per i più biechi intrattenimenti ludici e le più vergognose comparsate con l’animazione giusto per vivere sempre più intensamente questa ennesima esperienza ventagliesca.
Quattro pallinate a ping pong, due o tre scocchi di freccia al tiro con l’arco, ben sei o sette bracciate nell’acqua cristallina oltre a qualche minuto, ovviamente niente di più, nella palestra riccamente attrezzata sono tutto quello di alternativo che la nostra scatola cranica pensante elabora in alternativa alla piacevolissima distensione degli arti baciati dalla stella solare che contribuisce ad un immediato aumento del tasso di abbronzatura pigmentosa.
Tra i “ventidue” presenti di questo corner intagliato tra oceano e foresta, nessuno di questi tristissimi paganti, talmente limitati da non saper neanche compilare il coupon di registrazione al villaggio, potrebbe in qualche modo offuscare la figura fin qua dominante e vincente del capo animatore, veramente una sagoma, un pioppino nato che ha comunque la dote principale nell’impersonificare il lato umano, reale, vero, folle della città di Gallarate, fino ad ora identificato nell’immaginario collettivo popolata solamente da ricchi industriali, tutto fabbrichetta e fuoriserie.
Tra una sceneggiata sul palco, una partecipazione agli sketch, una iscrizione ai corsi salsa, merengue e baciata, una finale di braccio di ferro, una vittoria al beach volley il tempo passa inesorabile, il sole ci è amichevolmente vicino così come è costante un venticello molto gradito ed altrettanto pittoresco giusto per punteggiare, qua e là, la volta celeste di qualche batuffolo nuvoloso privo comunque di rischi piovosi.
L’animazione è a dir poco latitante ed il pubblico di un livello di partecipazione e di coinvolgimento a dir poco deprimente per cui la famiglia Caprotti in toto diventa il fulcro ed il cardine di ogni pur minima attività alternativa alla mera tintarella, al punto che nulla prende il via senza il Signor Notaio e la Signora Sirenetta, con i due infanti che ben oltre il rintocco della mezzanotte sono ancora in piena attività con domande, interventi, risposte che si concludono con il classico slice di pizza sotto il cielo puntinato di migliaia di tenere e romantiche lucine.
E’ arrivato il grande giorno, meta, obiettivo e traguardo di tutti coloro che giungono nel continente nero: il solo pronunciare la parola safari mette un po’ di soggezione, timore, ansia ed infatti prima ancora della sveglia mattutina eccoci già carichi come molle, ovviamente perfettamente studiate e realizzate dalla premiata ditta Scotti di Lissone nostro gentile sponsor, per l’Avventura che ci vede ai nastri di partenza abbigliati come Karen Blixen e l’esploratore Livingstone, cui manca solo la doppietta ad avancarica per dare inizio alla battuta nella savana.
Ben prima del sorgere del sole ingurgitiamo una colazione mattutina che per il Niky consiste in un parco susseguirsi di pane burro e due tipi di marmellata, uova con prosciutto, pomodoro, formaggio e becon, il tutto abbondantemente innaffiato di cioccolata calda alla salute degli alimentaristi controllati.
Sfioriamo la caotica fin dall’alba Malindi e senza nessun rimpianto lasciamo gli ultimi avamposti della teorica civiltà contemporanea per sperare di trovare un mondo incontaminato, vergine, selvaggio, in pratica tutto ciò che potrebbe non essere stato rovinato dall’intervento umano e ci riusciamo in pieno: attraversiamo i cancelli del parco nazionale dello Tsavo e già dopo pochi centimetri sembra di essere in un mondo completamente diverso rispetto a quello lasciato dieci metri indietro.
Un folle autista-ranger dall’occhio di falco e dal piede troppo pigiato sul gas tenendo presente che siamo su sterrato vero, piste terrose di impalpabile polvere rosse che ci penetra in ogni poro ed INTERstizio, ci mostra solo l’antipasto del nostro ricco week end a contatto con la natura e fin da subito gli occhi cominciano ad inumidirsi per l’emozione.
A questo punto è semplicemente un susseguirsi di urla di stupore da parte dei quattro partecipanti attoniti e sbigottiti nel vedere, ampiamente a portata di diaframma fotografico, impala, gazzelle, dik dik, struzzi, zebre, giraffe, elefanti, facoceri, coccodrilli, aquile, ippopotami, sciacalli, bufali.
I nostri visi sono l’immagine e l’emblema della nostra gioia, sembriamo veramente su di un altro pianeta, il silenzio è una delle cose più belle ed il procedere anche su un terreno così accidentato ci sembra di una facilità irrisoria.
Stop per il rifocillamento in un campo tendato extra lusso in riva ad un fiume in piena, scorci da cartolina, immagini da esploratori del primo Ottocento e livello delle batterie video fotografiche in drastica e preoccupante picchiata.
Rientriamo per l’happy hour, dopo un tramonto da brivido alle cascate che hanno creato, se mai ce ne fosse stato bisogno, un paesaggio stile lunare con enormi pietre piatte e lucidissime grazie a milioni di anni di incontrastata erosione naturale, e ci gustiamo pizzette alla brace, seguite poi da lasagne all’uovo, bistecche di non sappiamo quale cacciagione e crepes come gran finale, il tutto bada ben nel bel mezzo della savana, in centro al Kenia, nel cuore dell’Africa.
Se già i quaranta sono passati da tempo per il vostro adorato scrivano, stanotte penso proprio di essere invecchiato di colpo di qualche lustro: un impellente richiamo liquido di natura fisiologica mi ha fatto assistere dalla finestra del bagno, a non più di due metri di distanza, separato solamente da una zanzariera di tessuto, al passaggio di due enormi zanne di avorio illuminate dal solo bagliore della luna piena e seguite da tre tonnellate di materia rossiccia.
Paolo cuor di leone non abbassa più la palpebra per il restante sonno e la colazione delle sei è quasi un toccasana in vista della fuga dall’Epiu Chapela che lasciamo insieme ad un pezzo di miocardio, per inseguire nuove emozioni, percorrere nuove piste, osservare nuovi animali.
Ed allora, visto che mancavano solo loro all’appello, ecco comparire due branchi di leoni, teneri giocherelloni parenti del nostro adorato gattino lasciato in quel di Brugherio, che riusciamo ad avvistare nonostante il parco abbia una superficie di “soli” 40 km per 30 km ricoperti di ogni forma di vegetazione, praticamente il classico ago nel pagliaio.
Non ci fermiamo, non ci arrestiamo, non ci blocchiamo per nessuna ragione, noi interisti, fatto salvo il pranzo al lodge Ngutuni, alternativa che ci era stata proposta alla partenza rispetto al nostro periglioso giaciglio notturno ma che in realtà abbiamo fatto bene a snobbare causa eccessivo lusso e sfarzo assolutamente inconciliabile con la realtà circostante, regno di personaggi tipo il magnate dell’industria e della finanza che, padrone di un patrimonio infinito, ci raccontava sul bordo del fiume del nostro campo tendato le favolose fantasticherie di trenta anni di sue scorribande africane, con una supponenza ed una arroganza tipiche della piscina di dollaroni dello Zio Paperone .
Come in ogni favola il tutto prima o poi deve finire, cerchiamo di rallentare la marcia, di chiedere qualche sosta in più, ma inesorabilmente lasciamo i confini del parco del parco per fare ritorno alla civiltà che per come ci si presenta sarebbe meglio evitare a gambe levate: invece di seguire l’arteria principale che spacca in due il Kenia unendo Nairobi a Mombasa con striscia d’asfalto finalmente Come Cristo Comanda, prendiamo una deviazione che con parole del driver dovrebbe consentirci di vedere la vera Africa.
E qui cominciano i dolori per le nostre coscienze e le nostre anime che si specchiano di fronte al nulla più totale, ad un mondo indietro di secoli, a persone che “vivono” con niente, ad una infinità di bambini sempre sorridenti che passano la loro tragica esistenza a salutare noi turisti chiusi in furgoncini come se fossimo noi gli animali rari, per loro che campano in un paradiso che nella realtà è il più tragico dei gironi infernali.
Abbondantemente rifocillati, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, totalmente ritemprati e psicologicamente esaltati nel dopo safari, continuiamo a prestarci ignobilmente ad ogni qualsivoglia coinvolgimento dell’animazione che prima o poi probabilmente ci costringerà ad una presenza sul palcoscenico, dopo essere stati la forza trainante di una compagnia di ospiti assolutamente squallidi, con picchi di tristezza e di ignoranza da denuncia al tribunale dei mentecatti.
Decidiamo di farci attrarre dalla nomea e dalla fauna di Malindi e come sempre eccoci al giorno ed alla notte, al bianco ed al nero, a Bartali e Coppi, al mare ed alla montagna: si potrebbero aprire discussioni INTERminabili tra innocentisti e colpevolisti, a noi pare veramente un luogo da cancellare dalle cartine topografiche, un infinito susseguirsi di immagini raccapriccianti, di desolazione, di inedia, di nessun futuro prima di giungere in un fazzoletto di pochi metri quadrati recintato ove i soliti ricchi hanno pensato bene di creare le solite mega ville, con accesso dorato alle spiagge infinite, con piscine tropicali e stuoli di servitù, giusto per non far dimenticare il peso della sperequazione sociale.
Personaggio del giorno sicuramente una affascinante nobildonna tedesca che completamente abbigliata di bianco con enorme Mercedes cabriolet del primo dopoguerra girava per le vie della cittadina in cerca di allegra compagnia locale, trastullo molto congeniale a parecchie fanciulle, ragazze, signorine e vecchie megere dal viso particolarmente pallido che pensano bene di poter trovare in loco felicità altresì irrealizzabile nel vecchie continente.
Usciamo di nuovo dalla nostra prigione dorata per assistere alla commovente e molto toccante funzione religiosa cattolica, sottosezione battista, poi lancio quattro pesos al cantinero e prendo a nolo una qualcosa che a stento riesce a tenere la strada in equilibrio su due ruote, per raggiungere Watamu e mai impresa fisica fu per me più difficoltosa che macinare sei chilometri di strada, ovviamente sgarruppata, sotto un sole più che mai leone, con una catena di trasmissione quanto mai arrugginita, completamente senza freni e senza essermi sottoposto ad alcuna trasfusione sanguinea per la fluidità del liquido rosso, pratica tanto cara ai nostri tossici e dopati ciclisti.
Ritorno malconcio su gambe tremule dopo escursione non esaltante nel pur tanto decantata località balneare, quattro case di fango e due stamberghe di lamiera in faccia ad una bassa marea particolarmente algosa, e giusto per dare il colpo finale alle poche energie rimaste pomeriggio dedicato ad una prolungata sbracciata in piscina, ad un vincente torneo di beach volley, ad uno scambio a ping pong con il sempre più agguerrito Tommy e gran chiusura sotto i riflettori notturni per dieci scambi a tennis.
Ci francobolliamo agli abbondanti e burrosi fianchi di un longobardo dalla tasca posteriore dei pantaloni particolarmente rigonfia per dare vita alla prima vera e propria scoperta della battigia keniota ed allora ripassiamo a Malindi per il bis ravvicinato nel capoluogo che ancora una volta non consegna ai posteri alcun cenno degno di nota, sia esso paesaggistico, che naturalistico, che faunistico nella sua accezione umana.
Ci imbarchiamo su di un piccolo naviglio che per fortuna sapeva navigar, facciamo pit stop ad un corpo morto nei pressi della barriera corallina giusto in tempo per vedere branchi di pesciolini che farebbero la felicità annuale di tutti i ristoratori del golfo del Tigullio e sentiamo montare il dubbio di aver preso la prima sola del viaggio: la costa è assolutamente piatta e brulla, il cielo si sta minacciosamente rannuvolando ed una brezza tutt’altro che ispiratrice di sollievo sferza il nostro lento solcare dei flutti.
Non facciamo neanche in tempo a preoccuparci che ecco sorgere dalla vastità dell’oceano, quasi come per un miraggio al contrario, un atollo sabbioso dai contorni limitati ma straordinari, un lembo di terra bianchissima attorniato da ogni possibile sfumatura di cangiante colorazione che rende il tutto a dir poco paradisiaco.
L’atmosfera si scalda immediatamente, Momo l’abbiente, se tralasciamo una diabetica mielosità nei confronti della propria dolce metà, si rivela brillante, spiritoso, particolarmente loquace, pieno di aneddoti, curiosità, conoscenze e ciò è veramente molto ben accetto visto i restanti partecipanti alla gita, tanto per cambiare zotici cafoni che osano lamentarsi di tutto, pensando di essere ancora ai tempi di faccetta nera nella guerra di Abissinia.
Il vedere posizionata la brace per la grigliata a base di cicale, gamberoni, aragoste in un metro di acqua trasparente è veramente qualcosa di unico e mai provato, come le sensazioni di meravigliosa estasi donataci da questa giornata che veramente entra nell’Hall of Fame della nostra presenza sul pianeta terra.
Si dice che il troppo storpia, per una volta facciamo uno strappo alla regola ed eccoci a degustare crostacei e molluschi anche per cena grazie al gentilissimo omaggio dell’organizzazione che ci mette a disposizione un sontuoso pasto regale grazie all’accumulo del punteggio frequent traveller by Ventaglio, il tutto a suggellare una giornata coi fiocchi di seta pur punteggiata dal dramma e dalla tragedia della mancanza di parte del reportage fotografico causa amnesia senile dello scrivente dimentico della batteria del suo insieme tecnologico preferito.
Piano piano pole pole, senza problema akuna matata e ringraziando asante sana per tutto ciò che ci è stato mostrato, offerto e proposto cominciamo a tirare le somme di questo viaggio, riguardiamo in continuazione immagini, foto e filmati meditando seriamente una prossima capatina in zona.
Necessaria nota umano-passionale-morfologica per Dudu animatore autoctono intagliato nell’ebano, con pettorali scolpiti, bicipiti di pietra, quadricipiti esplosivi, proboscide in evidenza tra le gambe, assurto pertanto immediatamente ad oggetto dei desideri di ambo i sessi dei partecipanti alla vacanza keniota.
Orfani della coppia di cippa lippa tanto amore di Vidigulfo, rientrati ai frenetici business milanesi, affrontiamo l’ultimo giorno di permanenza scontrandoci più volte con la locale vendetta del Kilimangiaro che mette a durissima prova il nostro apparato gastroenterico ma, come quasi sempre, è il bene ad avere la meglio ed allora entusiasti della nostra fantastica avventura non facciamo che gridare a squarciagola QUIERA, arrivederci Africa !!!.