MONGOL RALLY lUGLIO 2012

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Les jeux sont faits, rien ne vaut plus, il dado è tratto, penso proprio che ogni modo di dire e detto popolare possa essere utilizzato, il Viaggio dei Viaggi è iniziato: alle tre e trentatré ( sarà il fato ma il numero perfetto per eccellenza è stato casualmente centrato in pieno)  del mattino di sabato 14 luglio lasciamo Monza diretti in … Mongolia !!

Ogni commento è stato detto, scritto, esternato, sottolineato, postato ma nonostante ciò siamo ai blocchi di partenza di quella che è sicuramente la più folle follia che abbia mai vissuto,  ancora claudicante per i postumi dell’incontro fin troppo ravvicinato con la carrozzeria del pirata pachistano assoldato dalle forze del Male, vengo prelevato quasi di forza dal prode Livio che, dopo mesi e mesi di imperterrita ed impareggiabile preparazione dell’evento, vede coronare anche per lui il sogno di tante notti insonni passate ad elucubrare strategie, percorsi, alternative, programmi vari per raggiungere l’apparentemente irraggiungibile steppa mongola .

Accompagnati almeno fino a Praga da due dame di compagnia, sinceramente un po’ troppo muscolosi e pelosi per poter essere definite splendide pon pon girls, dividiamo gli spazi della già amatissima Citroen C3 Picasso con Ale Ago ed un non menzionabile masculo che non dona la liberatoria per poter essere nominato, lanciati verso nord est, prendiamo la Milano Serenissima, costeggiamo il Lago di Garda e raggiungiamo il Brennero dopo essere passati nella terra di Heidi dei mezzo sangue altoatesini, né carne italica né pesce austriaco, ove ci ritroviamo nel bel mezzo di una acquata torrenziale con nuvole altezza parabrezza, 12 gradi centigradi a metà luglio ed una gran voglia di mettere li ali ( Red Bull dixit) alla nostra quattro ruote …. 

Ci fermiamo bordo autostrada in un impronunciabile paesino tedesco, mangiamo in una locanda a dir poco triste e tenebrosa nonostante le risa , i frizzi ed i  lazzi di una tavolata con una quarantina di ottantenni e riprendiamo il percorso ancora con il boccone non completamente masticato .

Giungiamo a Praga verso le tre, dodici ore e quasi mille chilometri dopo aver lasciato il capoluogo della Brianza per iniziare quella che il più famoso e richiesto femminile settimanale italiano ha trionfalmente definito la corsa più pazza del mondo: in loco troviamo un comitato di accoglienza d’eccezione essendo attesi dal gruppo di supporter del Fans Club Burago Molgora, giunto ieri per saggiare il terreno della capitale ceca .

Praga è bellissima, affascinante, attraente, romantica, bohemienne, pulitissima, intrigante, culturalmente e paesaggisticamente  da triplo circolino rosso per ogni tipo di guida turistica e motore di ricerca vacanziero, la giriamo in lungo e in largo in ogni suo più pittoresco scorcio, tra castelli, basiliche e palazzi di incredibile bellezza e sfarzo .

Il gruppo è finalmente al completo, Daniele terzo lato del triangolo delle meraviglie, genio della tecnologia e dell’organizzazione telematica,  ci ha raggiunto con un carro bestiame direttamente dal granducato di Lussemburgo, ci ritroviamo davanti ad una pantagruelica tavolata innaffiata da ogni tipo di frutto del luppolo appena in tempo prima del rientro in Italia dei nostri tifosi che scuotendo la testa e compatendoci non poco, al di là delle frasi di rito di invidia e solidarietà, pensano bene di tornare nell’amata madre patria per non perdere neanche un minuto di lavoro, di produttività, di impegno sociale mentre noi scorrazzeremo per steppe desertiche e lande desolate. 

Oggi passiamo la giornata a zonzo per Praga, saliamo e scendiamo dalla collina del castello, buttiamo l’occhio qua e là al cospetto di una popolazione giovane, simpatica, carina anche se decisamente inaffidabile al calar della notte,  quando il tasso alcolico sale vertiginosamente e le capacità di intendere e di volere della quasi totalità degli indigeni tende alla nullità.

Lasciamo anche Ago, ultimo della combriccola non partecipante al Mongol Rally, in partenza professionale non si sa bene per dove, e dopo aver girato come dei pirla per raggiungere dopo innumerevoli peripezie, multa per ztl compresa, un’orrida torre radiotelevisiva che deturpa completamente lo skyline praghese ed uno stadio totalmente in rovina, cosa che speriamo possa capitare anche all’altra squadra milanese attualmente in completa svendita tipo saldi, raggiungiamo il Castello di Klenova, starting point della nostra avventura .

Se nell’immaginario collettivo pensavamo, o forse speravamo, di trovarci al cospetto di uno dei meravigliosi manieri che costellano le verdi, bucoliche colline della repubblica ceca ci siamo sbagliati di grosso: alcune mura diroccate di quello che poteva essere un qualcosa di simile ad un grosso granaio esistono veramente ma invece di essere accolti da lanterne luminose, musica classica e banchetti sfarzosi ci troviamo sotto una pioggia battente in un campo fangoso stile Woodstock ove saremo costretti a campeggiare tra la prima decina di macchine arrivate, stabiliamo il campo base mentre ben più di un dubbio, una perplessità ed una meditazione comincia a farsi largo nelle nostre menti .

Per la terza volta in vita mia mi sono adattato alle cause di forza maggiore che mi hanno portato a dormire in macchina, ma se nelle altre occasioni il mare di Corsica e di Saint Tropez mi cullava delicatamente la discesa  nel mondo dei sogni, questa volta l’esperienza si è rivelata un incubo: mentre gli stoici Daniele e Livio sfidavano intemperie varie io, nonostante l’abitacolo dell’amata Picasso e l’inutile stratificazione dell’abbigliamento modello cipolla, pativo un freddo porco che non mi ha concesso tregua fino all’alba quando abbiamo optato per un immediato giro per le locande del paese alla ricerca di tepore e calore.

Ci guardiamo nelle palle degli occhi, diamo un rapido giudizio agli scappati di casa che ci circondano e prima di cambiare idea prendiamo armi e bagagli, strombazziamo un po’ per fare  del giusto  folklore e ci leviamo dalle palle, saltiamo la cerimonia della partenza ufficiale, evitiamo di trattenerci per il party serale che sarebbe stato una follia dover attendere altre otto ore sferzati da un tagliente vento gelido, sotto un tendone circondati da bergamaschi tronfi delle loro Panda con cui intendono oltrepassare il massiccio del Pamir, dopo esser usciti per la prima  volta dalla Val Brembana per raggiungere l’Orio Center.

Cantando a squarciagola We can be heroes just for one day, sperando invece di esserlo per lungo tempo, cominciamo la nostra discesa verso sud, alle undici torniamo a Praga per cercare di capire chi siamo, dove andiamo, cosa vogliamo, perché lo facciamo . 

Dopo quasi due ore ininterrotte di cataratte dal cielo, attraversando quanto mai verdi colline e incontaminate foreste, abbiamo la brillante idea di fare un pit stop a Bratislava, capitale della quasi neonata Slovacchia e mai scelta fu più azzeccata per un veloce sgranchimento delle articolazioni ancora dolenti per la notte all’addiaccio: la cittadina è linda, pittoresca, ovviamente pulitissima, adagiata sul fianco del Danubio, sovrastata da un maestoso castello e popolata da tanta gran bella gente, veramente un quadretto praticamente idilliaco … 

Continuiamo a discendere il continente europeo o per meglio dire tagliamo trasversalmente i Balcani, aggiungendo anche Budapest alla lista dei ticket d’ingresso: penso possa essere da Guinness dei primati ma i miei due prodi compari hanno applaudito a scena aperta il consiglio della toccata e fuga nella capitale magiara, venti minuti, proprio mentre calavano le prime luci della sera, ci hanno permesso comunque  una straordinaria fotografia di un luogo incantato dominato dalla città alta, dalla chiesa di Sant’ Andrea, dal ponte delle Catene, dal palazzo del Parlamento, dalla piazza ai caduti di tutte le rivolte ungheresi,  che va ad unirsi alle precedenti grandiose vedute di Praga e Bratislava.

Non contenti delle centinaia di chilometri già sciroppati in giornata, puntiamo a raggiungere Belgrado che esattamente a mezzanotte, come da tabella di marcia, viene conquistata dai tre intrepidi che ne traggono una positiva sensazione, tra mura illuminate, ponti sul Danubio, quartierini alla moda e maestosi vialoni che non rispecchiano la brutta nomea che si porta dietro la capitale della Serbia .

Siamo in ballo, non ci fermiamo, ci diamo il cambio alla guida ed imperterriti nonostante la precedente notte totalmente insonne al campo base del Mongol rally, tagliamo il traguardo della quinta capitale nell’arco delle 24 ore, arrivando alle prime luci dell’alba a Sofia, tutt’altro che attraente ed affascinante al punto che dormiamo un’oretta in una piazza ed io mi limito a scattare quattro dicasi quattro immagini della principale città bulgara.

Talvolta è meraviglioso farsi trasportare dell’improvvisazione, dal non aver orari, traguardi, impegni impellenti, ma oggi è proprio il caso di dire che una maggiore programmazione ci avrebbe fatto evitare la prima vera cagata del nostro raid: lo sfizio di voler passare anche dalla Grecia per poter mettere per la prima e forse unica volta i piedini in acqua di mare ci costringe dopo Plovdiv ad inerpicarci per una strada assurda, un susseguirsi infinito di curve, controcurve, tornanti e dirupi franosi che concludiamo sinceramente esausti con un Daniele che scarica a terra ogni cavallo motore della Picasso, anch’essa infastidita da un simile percorso che consiglieremmo solo al nostro peggior nemico .

 Il caldo si fa sentire, eccome, ed allora impietosita dal nostro essere viaggiatori vagabondi e viandanti erranti, una locandiera di Fanari ci mette a disposizione una camera nel miglior albergo della spiaggia, una delle ultime propaggini greche prima dell’Impero ottomano, per 50 euro in tre colazione compresa, è una benedizione in vista dei prossimi accampamenti notturni, non facciamo in tempo a ringraziare che già ci fiondiamo sotto una doccia corroborante, prima della necessaria abluzione nelle acque elleniche .

Dopo tutte le sofferenze stradali  ed automobilistiche cui siamo stati sottoposti , il giusto premio ci viene offerto da Zeus, Dio di tutte le divinità, di cui Daniele pare  imparentato direttamente tramite consorte, che in terra greca ci offre uno spettacolare tramonto stampato davanti agli occhi, sulla terrazza di un romanticissimo ristorantino, a picco sul mare, cena impeccabile e molto conveniente, peccato fossimo solamente ed esclusivamente io, Daniele e Livio a  godere di una simile grazia ricevuta.

Ci spostiamo in terra turca, il confine è super pattugliato, i vicini si guardano vicendevolmente in cagnesco, noi attendiamo un po’ che l’addetta alla frontiera, ovviamente senza parlare una parola in inglese, capisca qualcosa della nostra documentazione e ci ritroviamo ad Istanbul raggiunta dopo quasi tre ore di un’autostrada che sfiora il Mar di Marmara, passando tra l’altro a pochi centimetri dalle case bordo carreggiata in quella che dovrebbe essere la loro riviera balneare .

Istanbul  è caotica, frenetica, convulsa ma mettere insieme 13 milioni di persone non penso possa essere una cosa tanto semplice, arriviamo comunque in centro, non senza difficoltà in quanto il nostro infallibile tuareg si era appisolato ed il navigatore umano temporaneo ha trovato ben più di una difficoltà d’orientamento (per rispetto della privacy non specifico oltre ..)

Costantinopoli, ideale ponte tra due mondi, due culture, due storie, due civiltà è affascinante, intrigante,coinvolgente, stuzzicante, primo assaggio con il bazar egiziano, la moschea nuova, la scarpinata alla torre di Galata ( tassativa salita on the top per panorama mozzafiato sul Bosforo)  alle cui pendici si sviluppa un quartiere bellissimo, mix fra tradizioni e sviluppo, con una fiumana di gente veramente incalcolabile, con angolini e scorci che non fanno altro che attirare la nostra attenzione e curiosità verso una città che tutto si può dire tranne che ostile e pericolosa.

Livio è costretto  ad interrompere lo shooting fotografico molto artistico tutto in versione bianco e nero causa fusione della batteria,  mentre anch’io batto in ritirata allo scoccare della cinquecentesima immagine dopo i primi tre giorni di viaggio, non prima comunque di aver immortalato la versione by night di alcune moschee che con la loro grandiosità rendono perfettamente il concetto di fede e di rispetto per una Divinità superiore .

Al terzo luogo  di culto di ‘sti mammalucchi decidiamo all’unanimità di lasciare la magica e misteriosa Istanbul, con le sue ricchezze storiche ed artistiche, la Grande Moschea Blu che ci ha fatto consumare un’infinità di memoria fotografica, Santa Sofia con la sacrilega profanazione di quella che un tempo fu il riferimento della cristianità d’oriente, il Gran Bazar che è il tipico specchiettone per turisti che rimangono stupefatti dall’infinita di bancarelle e negozietti aperte praticamente sempre, tutti con gli stessi  colori, gli stessi prezzi, gli stessi prodotti (talvolta con intimo femminile più osè che nei  nostri sexy shop ..)

Attraversiamo la monumentale campata del ponte sul Bosforo, entriamo finalmente in Asia, la parte di Istanbul ad oriente è assolutamente censurabile in quanto un’unica colata di cemento modello case dormitorio alveare e procediamo verso meridione: questa volta  il fato ci dice culo e oltre a risparmiare quasi un’ottantina di chilometri ci ritroviamo al cospetto  di un meraviglioso tempio romano, quello  di Aizanoi, visitato senza alcuna indicazione stradale trovandosi nel bel mezzo di una serie di villaggi agricoli talmente arretrati da sembrar rimasti probabilmente ancora nel Medioevo e raggiunto con un’autostrada che ci permette per la prima volta in vita nostra anche una bella inversione ad U tra le corsie, attraversate da pedoni, asinelli, venditori ambulanti  e fiancheggiata da meravigliose siepi di girasoli . 

Saggiamo le qualità di off road della Picassina che ci fa giungere tranquillamente a Pammukkale con gli ultimi dieci chilometri di sterrato arrabbiato, senza un’indicazione, un cartello, una luce, nel buio più assoluto ma anche questo è il piacere dell’avventura  .

Il plauso questa volta va a Daniele che ha deciso la digressione dall’itinerario prestabilito che ci permette la visita di un luogo ove magnificamente la natura si fonde con le capacità dell’uomo: un’intera montagna di calcare bianchissimo si apre ad anfiteatro con tutta una serie di terrazzamenti che formano laghetti naturali dai meravigliosi riflessi luminosi .

Arrivati in loco qualche migliaio di anni fa, gli  antenati trasteverini di Totti pensarono bene di lasciare il segno e questa volta non sbagliarono: una necropoli vastissima, un teatro spettacolare e tutta una serie di colonne, portali e capitelli dalle più varie finiture colpiscono la nostra voglia di sapere e di cultura mentre centinaia di ippopotami russi e di formichine cinesi preferiscono immergersi nelle sorgenti termali .

Piccola precisazione di carattere tecnico: il miglior contrasto cromatico con finalità fotografiche consiglierebbe una visita in loco nel tardo pomeriggio …

Ci spariamo tredici ore di strada, passiamo da Antalya, estesissimo e tristissimo agglomerato urbano che forma la terza città della Turchia, i 42° sono talmente appiccicosi che si appannano gli obiettivi dei nostri device tecnologici, proseguiamo lungo un percorso che non ha mai visto passare un italiano, non veniamo in nessuna maniera considerati e senza dare nell’occhio nonostante la “bardatura” della C3 costeggiamo tutto il mare di fronte a Cipro, un unico susseguirsi di albergoni stipati all’inverosimile da orde di bielorussi bianchi come cadaveri e grassi come bisonti …

Un po’ di patè d’animo mi si spalma sulla cute quando tre dita di pelle d’oca cominciano a formarsi mentre sono alla guida lungo un tortuosissimo percorso a strapiombo su una scogliera cinquecento metri sotto di noi, il tutto ca va sans dire senza alcun parapetto laterale, allerto ogni mia attenzione e sensibilità, portando a termine il mio turno di guida in cui speravo nell’aiuto dell’IPod di Livio per evitare le locali infami nenie musicali, ma Vinicio Capossela alle due di notte, dopo più di mille chilometri, è veramente troppo per i miei padiglioni auricolari …

Dormiamo in un campo di grano sotto una miriade di stelle, ci svegliamo ovviamente al sorgere di fratello sole ( con defeco on plain air…) e dopo 5000 chilometri incontriamo il primo team di pazzi come noi, tre spagnoli su una Panda 4x4 che sono unti dal Signore avendo ricevuto la grazia di vivere nella stessa città del Messia Mourinho ..

A Derinkuiu, cancello d’ingresso della Pappa Ciccia, come abbiamo ribattezzato la Cappadocia, scendiamo negli inferi per visitare una città sotterranea che gli Ittiti avevano costruito circa 4000 anni fa, ottanta metri sotto i campi seminati, ove trovavano rifugio dalle scorribande nemiche fino a diecimila persone.

Il castello di Uchisar è la prima immagine che ci si pone davanti per comprendere come tutta questa regione sia magica ed intrigante: veri e propri pinnacoli di tufo, gli arcinoti camini delle fate,  scolpiti e modellati da migliaia di anni di agenti atmosferici che ne hanno bizzarramente modificato la struttura e l’estetica fino all’attuale realtà  utilizzata dall’uomo sia per scopi abitativi che puramente turistici .

Faruk, tipico venditore di tappeti turco dal fare molto napoletano, tuttofare e onnisciente ras della landa, dopo averci rifilato alcuni oggetti di paccottiglia dall’inestimabile valore artistico e culturale, ci consiglia ristorante, albergo, tour operator e ci fa capire che tutto il mondo è paese, ove con le conoscenze si ottiene tutto e di più …

Giriamo più volte l’anello d’oro, un circuito di venti chilometri, per noi assolutamente d’irrisoria facilità, per visitare tutti quei paesini come Goreme ed Urgup che hanno reso famosa questa regione turca che, nel bel mezzo del niente più assoluto, dona scorci mozzafiato e bellezze naturali senza eguali, con tutta una serie di metamorfosi geologiche che possono essere paragonate vuoi alla Death Valley, vuoi a profondi canyon, vuoi alle cime delle nostre amate Dolomiti.

Visto che non siamo “abbastanza” stanchi, io e Livio decidiamo di svegliarci alle cinque per andare ad assistere ad uno spettacolo realmente unico, l’ascesa di un centinaio di mongolfiere che al sorgere del sole silenziosamente e quanto mai elegantemente s’innalzano tra pinnacoli di roccia e monumenti cavernicoli, il tutto è veramente straordinario, noi evitiamo un salasso da 170 euro per capoccia, ci limitiamo al giusto numero di fotografie e sorridiamo vedendo una vecchietta velata e sdentata fanculizzare un enorme pallone aerostatico  passatole troppo vicino, cui comincia ad inveire  gettando contro pietre.  

Sopraffatti dalla noia mortale del paesaggio della Turchia centrale, cominciamo a filosofeggiare sull’esistenza terrena per poi passare all’introduzione di un trattato di chiromanzia e filosofia esoterica indiana, lungo otto volte l’Iliade e l’Odissea messe insieme, nel cui prologo di trecento pagine l’autore stesso precisa come tutto quello che dice può essere interpretati in mille maniere, ovviamente tutte in contrasto ed in antitesi, peraltro corretta, tra loro.

La deviazione verso Divrigi ci fa allungare il percorso di circa 150 chilometri, cosa saranno mai per noi, ma ci permette di ammirare la bellezza, la grazia e l’eleganza dell’architettura dell’ospedale e della grande moschea volute dalla magnanimità di un sultano nel lontano 1200 ed ora, a buon titolo, nell’elenco del patrimonio dell’umanità stilato dall’Unesco.

Ci satolliamo di pane, focaccia e piadine appena sfornate, ancora memori della precedente cena a carattere tipicamente locale e di cui le nostre papille gustative ed olfattive porteranno ricordo negli anni a seguire grazie all’esplosivo mix tra peperoncino, aglio, cipolla e non sappiamo assolutamente cosa di misterioso ed immangiabile che ci hanno propinato, mentre nel frattempo attraversiamo tutta l’Anatolia, brulla, scheletrica, inospitale ma con un fascino difficilmente riscontrabile alle nostre latitudini .

La famigerata frontiera iraniana viene attraversata, dopo il tappone di oltre mille chilometri che ci fa lasciare alle spalle l’apprezzatissima e graditissima Turchia, in soli cento minuti scanditi da decine di strette di mano, dozzine di pacche sulle spalle ed un’approfondita disquisizione sulle doti amatorie del nostro  ex Presidente del Consiglio, conquistatore dalla fama planetaria .

Ognuno di noi con il proposito di mantenere il proprio fioretto, chi di terminare il viaggio non più schiavo del tabagismo, chi di allontanarsi dagli effluvi alcolici del nettare divino, chi di rimandare a tempi migliori abbuffate pantagrueliche di junk food, cominciamo a conoscere l’Iran, che a prima vista ci appare come tante altre realtà mediorientali, con un traffico caotico che non rispetta alcuna regola viabilistica, con vero terrore di noi quasi ligi alle leggi e con il solito amletico dubbio su come i locali possano far passare il tempo praticamente nell’ozio più totale, in presenza di un clima che temperato e favorevole proprio non si può certamente  definire .

La prima destinazione è Tabriz, che viene raggiunta nel  pomeriggio dopo una necessaria e quanto mai cromaticamente apprezzabile sosta lungo le coste del lago salato Orumiyeh, una meravigliosa creatura della natura che purtroppo progressivamente si sta prosciugando, lasciando residui di un bianco abbagliante che donano all’insieme un qualcosa di prettamente lunare  e fantascientifico .

Il grande  bazar è finalmente un mercato originale, particolare, tipico e proprio delle esigenze vere degli abitanti e della loro vita di tutti i giorni, a differenza di tanti altri creati esclusivamente ad uso e consumo dei turisti, compriamo frutta, verdura e l’immancabile foca focaccia per poi dirigerci verso la Moschea Blu, splendida creazione religiosa del tredicesimo secolo tutta tempestata di maioliche e piastrelle dall’azzurro intenso, applicate nel ridottissimo spazio temporale di venticinque anni, come potete ben capire il ritmo lavorativo è da queste parti tutt’altro che di stile stakanovista .

Prima di venire arrestati dalle inflessibili guardie della rivoluzione ci andiamo a nascondere nei sotterranei di un garage per terminare lo spuntino che Livio, beatamente immemore delle restrittive leggi coraniche circa il Ramadan, stava tranquillamente smangiucchiando e trangugiando davanti agli occhi attoniti dei presenti, nonostante il divieto assoluto di bere  mangiare ( e fornicare ndr) dall’alba al tramonto .

Entriamo ed usciamo da Teheran ad una velocità che neanche Speedy Gonzales Niola riuscirebbe a sostenere nelle sue toccate e fuga turistiche, la capitale è a dir poco orrenda, caotica, frenetica, le statistiche la annoverano tra le metropoli più  inquinate della terra, coperta 200 giorni all’anno da una cappa di smog creata dai tre milioni di veicoli circolanti che apportano  una selezione naturale della specie, visti i più di diecimila morti annui causa difficoltà respiratorie .

Non troviamo alcunché di interessante, non sappiamo assolutamente cosa vedere anche perché non vi è persona che spiaccichi una parola dall’inflessione  britannica, veniamo praticamente rapiti da tre signori che, volendosi dimostrare disponibili, ci caricano a forza su un taxi per farci fare il giro dell’oca  con ritorno al punto di partenza senza neanche un’immagine ricordo di questa metropoli di oltre 15 milioni di abitanti che cancelleremo prestissimo dalla nostra memoria, se escludiamo il piacere della guida di Livio che si arma d un joystick virtuale e da fondo a tutte le sue capacità di fenomenale videogiocatore per destreggiarsi in mezzo a questa pazzesca viabilità in cui non si rispettano semafori, precedenze, strisce pedonali, il tutto condito da un assordante sottofondo di inutili strombazzate  .

Due ore sono state molto più che sufficienti, per evitare problemi ci nascondiamo come ladri perseguitati per poter deglutire un sorso di liquido cristallino e puntiamo verso Esfahan, che raggiungiamo in serata dopo esser stati premiati dalla buona sorte grazie alla vista da falco di Livio: proprio al fianco dell’autostrada, nel mezzo del più desolato ma egualmente piacevole deserto, ammiriamo, visitiamo, scopriamo  come moderni Indiana Jones un paese interamente costruito col fango, a cominciare dal castello del signorotto locale, foto di rito modello esploratori tronfi di orgoglio e nanna in una splendida stanza consigliata dal quasi sempre impeccabile Lonely Planet .

Esfahan fa guadagnare parecchi punti alla nostra considerazione dell’Iran, città verde, accogliente, ordinata, con grandi vialoni, giardini curatissimi ove si fanno picnic anche a mezzanotte, un’atmosfera assai informale che ci strappa un sorriso compiaciuto, cosa assolutamente sconosciuta a questo popolo disponibile e sensibile anche se estremamente triste e tutt’altro che sorridente.

Visitiamo moschee ricche e splendenti, girovaghiamo piacevolmente tra viuzze trasformate in un immenso commercio a cielo aperto,  passiamo una piacevole mezz’oretta a fare acquisti, spesso e volentieri fermati da persone ansiose di chiacchierare, di rendersi affabili, di mettersi a nostra disposizione  come il vecchietto che attraversa metà città in bicicletta per indicarci il nostro traguardo serale .

Partiamo da Esfahan dopo una lauta colazione servita addirittura in camera e la visita ormai di rito a moschee ( due particolarmente sfavillanti) e bazar, in questo caso gradevolmente supportati da un auto pubblica gialla  che ci evita di perderci nel dedalo inestricabile di viuzze, ovviamente tutte uguali e senza alcuna indicazione gentilmente apposta dall’ente del turismo locale, con un piacevole ricordo di questa cittadina assolutamente a misura d’uomo, anche europeo .  

Passiamo da Shiraz giusto per mettere una crocetta nel punto più a sud della nostra lunga gita fuori porta, la terza  metropoli dell’Iran non offre particolari spunti  degni di nota, viene ricordata come la città di Afez, il Dante Alighieri persiano  di cui è praticamente d’obbligo insieme al Corano un poemetto in ogni famiglia iraniana, girovaghiamo con un driver sdentato che non riesce ad esprimersi neanche a gesti, passeggiamo per curatissimi giardini ed orti botanici che sono il luogo di ritrovo delle coppiette locali, ovviamente a debita distanza  reciproca e senza alcuna possibilità di effusioni in pubblico, ritardiamo di mezz’ora sulla tabella di marcia scolpita nelle tavole delle leggi di Daniele e tocchiamo con mano, ma soprattutto con obiettivo fotografico, la magica Persepoli  dei leggendari Dario il Grande e Serse il condottiero.

Non oso credere alle mie orecchie, ancora traumatizzate da un risveglio mattutino sulle assordanti noti degli AC/DC, quando causa problemi di batteria scarica, vengo supplicato dai compagni di viaggio di sovraintendere al reportage digitale, non me lo faccio certamente ripetere e scatto a ciclo continuo tra colonne svettanti, capitelli imponenti, archi trionfali, tombe monumentali di quello che settecento anni prima di Cristo era il campo base dell’esercito persiano alla conquista di tutto l’Oriente  .

La visita, durata circa tre ore, è stata un tuffo al cuore, rimaniamo sbalorditi dalle capacità costruttive dei persiani, dalla loro grandiosità, dal loro potere, noi fatichiamo come cammelli assetati, alle tre del pomeriggio, con quasi quaranta gradi, senza un filo d’ombra, sognando la catena d’imbottigliamento della sacra bevanda con le bollicine made in Usa …

Pensavamo sinceramente di non incontrare alcun europeo in territorio degli Imam ma proprio mentre stiamo prendendo la direzione del deserto verso il complicato Turkmenistan, facendo due scatti di numero anche alla tomba di Ciro inspiegabilmente recensita come patrimonio dell’umanità ma in realtà semplice sarcofago sopraelevato in un terreno coltivato ( se vedesse quelle maestose dei suoi successori

si ribalterebbe nell’ultimo giaciglio..), incontriamo due elegantissimi frikkettoni francesi  che puzzano a vista, non si ricordano neanche quando sono partiti e vogliono arrivare in Australia con un jeeppone alimentato ad olio di frittura recuperato dagli scarti dei ristoranti.

Arriviamo al crepuscolo a Yazd, ultimo agglomerato urbano prima del deserto che ci porterà verso nord est, all’inizio vero e proprio della mitologica Via della Seta, troviamo un alberghetto che più tipico, caratteristico e pittoresco non si potrebbe ed incontriamo i quattro italiani di cui si favoleggiava la presenza in città: speravamo fossero anch’essi partecipanti alla nostra follia, invece sono quattro simpatici anzianotti romani in giro per l’Iran in autobus.

Stamattina decidiamo di giocare a nascondino, ognuno di noi prende la propria strada per perlustrare i labirintici vicoli di questa bellissima città il cui centro storico è un dedalo di costruzioni in mattone crudo miracolosamente scampato alla deturpazione urbanistica in atto in altre città iraniane, teoricamente proiettate verso il futuro, in realtà semplicemente orientate ad uno sviluppo immobiliare di dubbio gusto .   

Vengo in più occasioni fermato ed invitato a gesti più che a parole ad entrare nelle loro abitazioni, per senso del rispetto alla loro ospitalità non rifiuto ma una morsa al sistema respiratorio mi assale vedendo le terrificanti condizioni in cui devono sopravvivere, non solo con quali prospettive, questi abitanti di un paese praticamente isolato dal mondo a causa delle sanzioni internazionali dovute ad un regime ostile e arrogante, la cui propaganda descrive noi italiani come impossibilitati a comprarci da mangiare causa inflazione del 40% mensile ( non che vi manchi in realtà ancora molto …)

Ben lieto di pagare a colui che sa tanto di molto i diritti di copyright relativi alla stesura degli Oscar ( ad esempio con qualche milione di rial, praticamente carta straccia raffigurante il Capo dei Capi della rivoluzione islamica, che ti viene rifilata ad ogni introvabile ufficio di cambio), riporto i tratti peculiari di alcuni personaggi  o avvenimenti particolarmente caratteristici fin qua incontrati:

-          Buon padre di famiglia che per ovviare alla difficoltà di acquisto di un monovolume carica sei membri del parentado su una motocicletta;

-          Camionisti iraniani che sopportano le pene dell’inferno per trasportare orni tipo di mercanzia su strade certamente in buono stato  ma sicuramente impervie ed interminabili con una temperatura sempre intorno ai 40 gradi;

-          Benzinaio truffaldino che, dopo averci applicato una tariffa abnorme per il pur convenientissimo rifornimento, riceve una sequela d’improperi per tutte le sue generazioni a seguire;

-          Due ragazze incontrate in albergo che come terroriste in fuga si nascondono per mordere un tozzo di pane e bere un sorso d’acqua, mentre ci raccontano  una condizione di vita assurda che non permette loro di lasciare neanche la città natale e di vivere normalmente una vita che a noi sembra scontata ed ovvia;

-          Capo pattuglia dell’esercito, sosia del Sergente Garcia nelle avventure di Zorro, che nel pieno della notte, a qualche decina di chilometri dalla prima luce abitativa, pensa bene di fermarci per un posto di blocco in cui troviamo, non senza qualche ansia, soldati armati fino ai denti;

-          Daniele, driver imprendibile, che grazie a due bombe energetiche, ci porta fino al confine del Turkmenistan, dopo aver ampiamente superato i mille chilometri di guida giornaliera ed aver tagliato il traguardo degli attuali 10.000 dall’amata  Brianza;

-          A tutti noi tre per il coraggio con cui abbiamo cenato in mezzo alla strada, riempiendo in condizioni igieniche per lo meno dubbie, un metro quadro di pane fatto non si sa quando, come, dove e da chi con un’intera scatola di tonno dimensione extra large.

 

Sabato 28 luglio verso le otto di mattina scatta il panico, non si sa bene per quale motivo ma mancano dei visti d’ingresso in Iran, amena regione in cui ci troviamo già da cinque giorni, per cui ci è vietata l’uscita verso il confinante Turkmenistan: gestiamo le emozioni, teniamo sotto controllo le reazioni e mai suono fu più dolce per le nostre orecchie quale il sentire rimbombare sul nostro passaporto il timbro di via libera, dopo quasi tre ore di tensione e di ansia al pensiero di dover tornare al  varco d’ingresso vicino a Tabriz, a circa duemila chilometri da dove ci troviamo.

E quando pensavamo che tutto fosse finito, inizia il bello: altre tre ore di controlli, verifiche, interrogatori, perquisizioni per poter entrare in un paese che non vorremmo assolutamente visitare ma da cui siamo tassativamente costretti a transitare.

Ashgabat sembra proveniente da un altro pianeta, enormi palazzi di lucidissimo marmo bianco stile mausoleo cimiteriale, a prima vista totalmente disabitati, una stranissima combinazione tra Las Vegas e Miami che ci mette grande tristezza al ricordo dei sapori,colori,odori del confinante Iran.

Veniamo fotografati, schedati, catalogati e scortati nel corso della nostra permanenza che ci auguriamo possa essere quanto mai rapida, buttiamo qua e là l’occhio su questa capitale fantasma, giocattolo di un dittatore megalomane che, dopo un devastante terremoto che ha causato nel 1946 130.000 morti, undicimila decessi per raffreddore secondo l’organo del partito comunista che non ammetteva neanche catastrofi naturali, ha ricostruito la capitale senza alcun criterio, logica, motivazione, arrivando al punto di obbligare il suo popolo a cambiare la menzione dei giorni della settimana che ora vengono ricordati con i nomi dei famigliari del signorotto.

I 380 chilometri che ci permettono di lasciare ghost town sono una vera e propria odissea, altro che il cazzeggio del prode Ulisse, sulla più bastardamente dissestata strada che abbiamo mai percorso, una fantomatica autostrada disseminata di buche, dossi e crateri che ci portano immediatamente con la mente al vicinissimo Afghanistan, con grande sofferenza del nostro stomaco già sottoposto a forzate astinenze alimentari..

Mazzata finale con arresti domiciliari in un casermone del soviet supremo, senza ombra di dubbio il posto più triste e squallido ove abbia appoggiato le mie regali terga, dormo vestito e preoccupato mentre la fedelissima Nikon si rifiuta addirittura di aprire l’occhietto del diaframma di fronte a cotanta mestizia.

Partiamo presto, prestissimo, Marat, nostra obbligatoria e inseparabile guida che non sa dire in inglese neanche quanti anni abbia, ci porta a Marv, esageratamente considerato il più importante sito archeologico dell’Asia Centrale: effettivamente, chiudendo gli occhi, possiamo anche immaginare cosa era la vita nel momento di massimo splendore di questo crocevia lungo la Via della Seta, mille anni fa cosmopolita città paragonata a Baghdad ed Istanbul, ove convivevano pacificamente musulmani, cristiani, zorohastri che condividevano ogni tipo di commercio e di scambio culturale.

Poi successe il patatrac: quel bricconcello di Gengis Khan, cui venne rifiutato il pagamento di un tributo e di una tassa, pensò bene di farsi saltare il nervo, di passare in zona e di trucidare senza pietà 30.000 persone mettendo fine agli sfarzi ed alle mirabolanti avventure di questo sito di cui  oggi possiamo  ammirare qualche brandello di mura, alcune teoriche fondamenta ed un unico edificio, lasciato a futura memoria della ferocia inaudita del condottiere mongolo.

Senza alcun rimpianto lasciamo questo paese triste, inospitale, privo di tutte quelle caratteristiche di fascino e di avventura che stiamo cercando in questo viaggio, ci spillano senza alcun motivo o ragione altri soldi ( addirittura per la disinfestazione ed il lavaggio obbligatorio della macchina che ovviamente non ci fanno), ci mordiamo la lingua e chiediamo a tutti coloro che vivono su Facebook di creare un gruppo “Cancelliamo il Turkmensitan dal mappamondo di Risiko”.

La vendetta del Turkmenistan non si fa attendere e si abbatte su di noi più atroce di quella di Montezuma: arrivati troppo velocemente al confine rispetto alla tabella di marcia, vogliosi di lasciare questo paese da dimenticare, veniamo brutalmente rimbalzati in attesa che scocchi  la corretta data indicata sul visto d’ingresso .

Delusi, sconsolati ma indomiti ci avviciniamo lungo il fiume ad una piccola radura molto bucolica, campestre ed agreste ma non facciamo bene i calcoli con la tenuta del terreno e ci blocchiamo per la prima insabbiatura del rally … che giornata di merda !!!

Arrivato alla veneranda età di 47 anni, il vostro adorato cantastorie prova lì emozione della sua prima volta in tenda: le premesse c’erano tutte, luna piena, uccellini cinguettanti, un bellissimo falò, lo sciabordio dell’acqua, quattro chiacchiere in inglese con due ragazzi catalani, ma il conto mi viene presentato all’alba con un mal di schiena pazzesco ed un puzzle di dolori in tutto il corpo, per la famosa serie dei telefilm “Se ne poteva anche fare a meno”.

Lasciamo il nostro accampamento in riva al fiume ove ci siamo comunque dilettati a prepararci alla prossima edizione dell’Isola dei Bavosi, cucinando con sterco di cammello un ottimo riso alla milanese ed un’ invitante pasta e fagioli, cercando di pescare, preparando tappetini con foglie di canna di bambù, facendo amicizia con un pastore cui abbiamo insegnato la geografia a gesti, con suo zio più che annebbiato dai fumi della vodka e con il loro cane che ci ha tenuto, non piacevolmente, compagnia abbaiando tutta la notte alla luna piena.

Al sorgere del sole siamo i  numeri zero al posto di confine, ormai ci conoscono, solite battute, i frontalieri sanno a memoria la magica formazione del Triplete, noi stiamo muti, non fiatiamo per il timore di un qualsiasi intoppo e lasciamo alle spalle questo territorio che sinceramente ci ha creato solo grane e grattacapi.

Torniamo a dedicarci ad arte, storia e cultura visitando Bukhara, gioiello uzbeko di cui ammiriamo ed apprezziamo il clima e lo spirito molto accogliente, bellissime madrase, le famose scuole coraniche, ci si presentano praticamente ad ogni angolo, con tutta una serie di raffinatissime decorazioni e di coloratissime rifiniture, ci prodighiamo in spese di rito, chi a tovaglie, chi a cucini ricamati, chi a cappelli dell’aviazione sovietica, il tutto con estrema calma e meritata tranquillità .

Incontriamo altri equipaggi, degli svizzeri, dei polacchi, un inglese solo soletto e cominciano le favole fantastiche con aneddoti straordinari che narrano di un gruppo di britannici ritiratosi per eccesso di tasso alcolico al limite della cirrosi epatica, di una ragazza lasciata daòòe amiche  al bordo di una strada dopo una litigata, di un giovane costretto al forfait causa scherzo dei compagni burloni che gli hanno lanciato il passaporto dal finestrino, ovviamente perdendoglielo.

Raggiungiamo la mitologica Samarcanda, soggetto di mille favole fantastiche e di una canzone di Vecchioni passata alla storia, la vediamo e la ammiriamo in tutto il suo fascino grazie al classico taxista-guida-tuttofare di tipico stampo partenopeo che dopo averci fatto entrare senza biglietto in alcuni luoghi di particolare bellezza, ci fa salire sul minareto attraverso un passaggio segreto, l’arrampicata è faticosa ed in certi momenti perfino perigliosa ma il tutto valeva sinceramente la pena, avendo un 360° completo della città sotto i nostri occhi ed Ai Nostri piedi .

In serata, dopo alcune tombe e mausolei veramente strepitosi risalenti all’undicesimo secolo, andiamo a cena in un ristorante ove si scatenano balli e danze folkloristiche e restiamo piacevolmente colpiti nonchè sorpresi della semplicità con cui vivono queste persone assai  dignitose che sopravvivono con circa 100/150 euro al mese di stipendio medio .

Paghiamo con il solito rotolone di banconote, un qualcosa di veramente incredibile se pensiamo che un euro vale 3200 monete locali, quindi ogni transazione richiede il supporto del ragioniere di stato e torniamo al nostro caravanserraglio, forse il più tipico tra quelli finora trattati, ove incontriamo altri scappati di casa, tra cui menzione d’onore ai pluri incontrati pandisti biellesi ed alessandrini, a quattro olandesi belli come il sole che girano a vodka, con un manichino gonfiato ed un surf in macchina e ad un’americana che non si sa bene come e perché si sta spostando in solitaria verso oriente con meta finale l’Afghanistan .

Briefing mattutino con gli altri team, uno spettacolo vero vedere il fumo dei fiumi dell’alcool sui visi stravolti degli olandesi, decidiamo di lasciare il b&B  Antica, veramente da consigliare per la sua atmosfera famigliare e retrò, con un giardino botanico di tutto rispetto, passiamo davanti al Registan per rimanere ancora una volta a bocca aperta di fronte a cotanta maestosità, gironzoliamo per un mercato vero, non uno degli infiniti bazar seminati fino a qua  lungo il nostro percorso, vediamo di cosa si cibano gli uzbeki in un tripudio di colori ed odori e dedichiamo più di un momento di riflessione incantati dal potere ipnotico della moschea di Bibi Khanoum , veniamo rapiti da quest’atmosfera mistica e pur con eventuali divergenze religiose, non possiamo che essere affascinati ed anche un po’ intimoriti dalla grandezza della fede, al cospetto di un’opera di tale importanza architettonica.

Aspettiamo con ansia lo scoccare della mezzanotte, non certo per l’arrivo di Cenerentola, quanto per il via libera all’attraversamento dell’ennesima frontiera, quella con il Kazakistan, dopo di che ci rimarranno solo due barriere prima di mettere piede sul sospirato terreno mongolo.

Mangiamo, parola, veramente grossa, in un locale di Chinaz, vero e proprio villaggio dimenticato da Dio, ove fino a tre settimane fa non avremmo neanche avuto il coraggio di chiedere l’ora, ma la fame batte in testa e con sei  euro, cercando di non voltare troppo la testa intorno a noi mentre siamo seduti, ci caliamo tre sandwich, tre spiedini, tre coca ed una birra .

Passiamo la dogana con relativa facilità, due ore di attesa con grande soddisfazione degli ispettori che sembrano più che godere nel farci perdere tempo, commentando perfino i nostri look ed il taglio dei capelli, esigendo contributi, mance e souvenir, ovviamente fermamente rifiutati, chiacchieriamo tra bisonti della strada e mostruosi autoarticolati con due team veneti che a causa della fusione del motore di una loro Panda 4x4 abbandonata in territorio turkmeno, si ritrovano ora a caricare ogni tipo di suppellettile su un unico furgoncino.

Nel nulla cosmico e nel vuoto planetario, alle quattro di notte lungo quella che osano definire un’autostrada, mi ritrovo ad un incontro molto ravvicinato con un gradino, risultato strike, bravo Caprotti, due gomme bucate gettate al vento, o meglio nel deserto, in un sol colpo !!  Livio e Daniele si trasformano in abilissimi tecnici del pit stop agli ordini della scuderia Citroen, sostituiscono in un batter d’occhio  i battistrada e ripartiamo per quella che si rivelerà la tappa più lunga, più noiosa, più interminabile, più difficoltosa ( per il momento) del nostro tour, ravvivata, pensate voi che emozione, dal ritrovamento bordo massicciata di un teschio di un bovino bicornuto non meglio identificato che carichiamo sul tetto quale talismano per il proseguimento del rally.

Piccolo approfondimento psicologico: gli spazi attraversati oggi sono enormi, infiniti, immensi, non si hanno punti di riferimento, prospettive, angolazioni, l’orizzonte è un’entità impalpabile ed irraggiungibile, ci fermiamo in un paio di occasioni con la sensazione di essere un insignificante puntino in mezzo a questo smisurato palcoscenico senza volumi, e cominciamo a pensare, a riflettere, a meditare …

Anche le stelle sembrano diverse, particolari, originali, mentre per migliaia di anni siamo stati noi umani

ad alzare lo sguardo per ammirare la volta celeste illuminata da milioni di gioielli luminosi, ora pare che siano loro ad essersi unite tutte insieme in un meraviglioso carosello splendente che con affetto e simpatia assiste, protegge ed incoraggia il cammino di tre piccoli omini uniti verso la realizzazione di un grande sogno . 

Ventitre ore di viaggio ininterrotte su una strada per lunghi tratti veramente impercorribile ci sfiancano, gettiamo la spugna ed alziamo le tende a notte fonda lungo il tragitto verso Astana che intendiamo raggiungere in mattinata, quando attraversiamo un paio di grosse città costruite attorno ad acciaierie ed altiforni mastodontici e quanto mai inquinanti che distruggono la vista, l’ambiente e soprattutto la salute mentale e fisica di tutti coloro che hanno la grande sfortuna di abitarvici intorno .

Astana proprio non è male, anzi tutt’altro,  è l’ultimo avamposto di quella che noi consideriamo civiltà prima delle lussureggianti foreste russe e delle sterminate steppe mongole, il locale presidente l’ha costruita quasi per gioco, facendola diventare per suo sfizio personale capitale a discapito di quella precedente, Taschkent, ma il risultato in questo caso è una metropoli dai grandi viali alberati, dai palazzi moderni, lucenti e splendenti ma sicuramente non pacchiani e fuori luogo, visitiamo la tenda più grande del mondo che in realtà è costituita da un’enorme tensostruttura in acciaio e plexiglass ( al cui interno troviamo un centro commerciale identico al Vulcano, al Carosello o al Girasole),  progettata per resistere all’escursione termica più elevata del pianeta, infatti qua si passa dai meno ai più 40° giusto per non sbagliare con le cifre .

Piccolo aggiornamento circa i nostri spostamenti:

1° giorno Monza – Praga Km. 979

2° giorno Praga- Kletova - Praga Km. 280

3° giorno Praga – Bratislava – Budapest – Belgrado - Sofia Km. 1374

4° giorno Sofia - Fanari km. 421

5° giorno Fanari - Istanbul km. 382

6° giorno Istanbul - Pammukale km. 657

7° giorno Pammukkale - Goreme km. 811

8° giorno Goreme - confine iraniano km. 1.045

9° giorno Confine iraniano- Tabriz - Zanjan  km. 485

10° giorno Zanjan – Eshfan km. 866

11° giorno Eshfan - Shiraz km.494

12° giorno Shiraz – Persepoli - Jazd km. 444

13° giorno Jazd - Ashgabat km. 1047

14° giorno Ashgabat - Mary km. 364

15° giorno Mary – Marv - confine turkmeno km. 280

16° giorno Confine turkmeno

17° giorno Confine turkmeno - Bukhara km. 396

18° giorno Bukhara - Samarcanda km. 289

19° giorno Samarcanda - confine uzbeko km. 275

20° giorno Confine uzbeko -  Kievka il nulla assoluto km. 1676

21° giorno Il nulla assoluto - Astana km. 280

22° giorno Astana

23° giorno Astana - Pavlodar- confine russo km. 590

24° giorno confine russo - Novosibirsk km. 685

25° giorno Novoibirsk - Irkutsk km. 1854

26° giorno Irkutsk - Lago Baikal -  Suhbaatar confine mongolo km. 535

27° giorno Confine mongolo -  monastero d Amarbaiasgalant Khiid  km. 317

28° giorno Monastero di Amarbaiasgalant Khiid - monastero di Endem Zuu km. 412

29° giorno Monastero di Endem Zuu - Ulan Bataar km. 380

30° Ulan Bataar

31° giorno Ulan Bataar – Manas Kirgizistan – Istanbul - Milano

 

 

Analizziamo la strada da percorrere e soprattutto quella già effettuata e decidiamo all’unanimità assoluta di fermarci un giorno ancora ad Astana che in tutta sincerità ci sta piacendo molto: il solito presidente padre padrone sembra averla fatta progettare come una grande plastico da tavolino, lasciando libero sfogo alla fantasia di architetti provenienti da tutto il mondo che, in una regione che non ha alcuna attrattiva naturale, turistica e paesaggistica, hanno realizzato edifici di ogni tipo ed ogni forma, per cui ci troviamo al cospetto di progetti curvi, rettilinei, ellittici, ovali, cubici, piramidali e chi più ne ha più ne metta , il tutto in un mix variegato di razze, profili ed abitanti dai meravigliosi lineamenti  e dagli stupendi tratti somatici, peccato solo non parlino una parola una di inglese .

Lasciamo la stanza più costosa del nostro viaggio a tre vichinghi danesi dall’aria dinoccolata e dalla barba assai sfatta, ultima occhiata a mausolei, sale conferenze, palazzetti- astronavi, auditorium, fontane ed altari della patria vari e puntiamo verso la Russia, ultima nazione che ci divide dalla nostra meta finale.

Rincoglionisco di parole l’ennesima pattuglia stradale che intende multarci per eccesso di velocità su un rettilineo chilometrico ove passeranno tre macchine alla settimana, dono con enfasi una Vivident 3D alla fragola, racconto la favola della supercazzola con scappellamento come se fosse Antani e ripartiamo verso Pavlodovar, distante circa mezzo migliaio di chilometri, mentre nel frattempo ne abbiamo già percorsi quattordicimila .

Ceniamo in mezzo ad i campi con scatolette di mais, tonno che sembra pre masticato, piselli freddi molto insipidi e Red Bull calda  prima di fermarci in una baracca di fronte alla sempre desiderata sbarra di confine, ove veniamo invitati, tra il lusco ed il brusco ma con plateali gesti amichevoli,  da un camionista sovietico già particolarmente alticcio a bere vodka in sua compagnia, notasi che in mutande, senza maglietta, tutto tatuato e con i denti placcati d’oro, sale sul suo autotreno per cambiarsi ed onorare l’evento del nostro incontro, festeggiato con gargarismi di liquore davanti alla mia faccia allibita .

Le sorprese non finiscono mai ed allora titubanti ed un po’ intimiditi saliamo scortati dai militari le scale della direzione di frontiera con la Russia, temendo  per qualche arcano mistero di essere trattenuti in una delle celle per detenuti politici o immigrati clandestini, ci facciamo un segno della croce ed invece veniamo accolti da the caldo, biscottini e leccornie varie, se lo raccontiamo agli altri team non ci crederà nessuno …

Azioniamo la velocità di crociera della nostra Principessina francese, dotata anche di questo confort, e ci lanciamo lungo le finalmente ottimali strade russe, attraverso fitte boscaglie di conifere, verso Novosibirsk con Cyber Livio in consolle grazie ai nuovi aggiornamenti musicali ottenuti notte tempo dall’universo multimediale e mixati tra pc portatile e lettore mp3 marchiato mela smangiucchiata …

La terza città della Russia ci accoglie in tutto il suo  triste squallore: è proprio come potremmo immaginarci una grigia e dimessa metropoli di stampo bolscevico, non troviamo nulla di interessante, una chiesa, un monumento, una bellezza della natura che ci permetta di apprezzare la sosta in loco, nonostante un sole che spacca le pietre tutto è malinconico, triste, desolato e nulla sembra poter cambiare una realtà priva di spunti di nota in cui persino i mezzi di trasporto decrepiti ed arrugginiti danno il loro contributo negativo.  

Incontriamo due italiani che dicono di essere qua per approfondire le tecniche relative alle arti marziali siberiane ma alla luce dell’ esorbitante quantità industriale di bellezze femminili, esattamente le stereotipo nell’immaginario collettivo dell’italiano medio circa le donne russe, abbiamo qualche dubbio in merito, abbozziamo e proseguiamo, le foreste che ci dividono dalla Mongolia ci attendono .

Sotto un cielo per la prima  volta grigio plumbeo, la Siberia ci appare veramente infinita, interminabile, illimitata, in tutta la sua selvaggia e primitiva natura incontaminata, caratterizzata da miliardi di betulle alte come sequoie e milioni di pini pronti ad adornare le case di tutto il pianeta fino alla fine del modo, previsione Maya permettendo.

La M 53, unica strada che la attraversa, rischia ogni giorno di essere inghiottita dai due lati di foresta che la costeggiano, noi assaggiamo solo una minima parte di questa sterminata regione che spesso e volentieri riserva tratti di sterrato ed enormi buche per tener sveglio ed in campana il guidatore che prende spesso le sembianze del vero e proprio condottiero anche a causa delle difficoltà di orientamento .

Un po’ a naso un po’ a caso proseguiamo verso la meta odierna, Irkusk che qua viene scritto in cirillico NKPCHY, lasciamo a voi la deduzione di come dobbiamo arrangiarci visto che non abbiamo una cartina stradale russa, paese inizialmente non considerato nel nostro itinerario, e veniamo assaliti da sciami di zanzare stizzite al momento dell’espletamento dei nostri impellenti bisogni fisiologici, lor signori maschietti attenti alle vostre preziose attrezzature nel caso vi trovaste in zona, per non parlare poi di orsi e lupi dati per presenti nelle vicinanze .   

Da sempre l’umanità si chiede se esiste qualcosa oltre al nulla, allo zero assoluto e forse oggi noi ne abbiamo trovato la risposta definitiva che tramandiamo ai posteri: Irkutsk !!

Dopo ventitre ore filate di marcia forzata senza sosta se non per abbeverare la Picassina, giungiamo in questa città di 650.000 abitanti che, se mai fosse possibile, è ancora più insignificante e trascurabile di Novosibirsk e ciò è veramente tutto dire, non osiamo neanche lontanamente pensare cosa dovrà essere viverci tra un paio di mesi quando arriverà il grande freddo, amico intimo di Napoleone e di Hitler nelle loro campagne di Russia .

Per tutto il viaggio, ad oggi oltre sedicimila chilometri, abbiamo visto, fotografato, assaggiato angurie  di ogni genere, tipo e provenienza, sembra che non si coltivi, distribuisca e venda altro genere alimentare ma in Russia anche il cocomero merita la bocciatura in tronco .

Usciamo dal percorso tracciato, cerchiamo di dimenticare quanto di triste, malinconico e disperato abbiamo visto nel pur carissime e costosissime città sovietiche e facciamo  la prima, vera gita turistica  raggiungendo il Lago Baikal, piccola pozza d’acqua che a spanne dovrebbe contenere circa un decimo di tutte le riserve d’acqua dolce del pianeta, chiamarlo lago mi sembra troppo riduttivo, siamo al cospetto con uno specchio liquido che non mostra limiti e confini considerando che è lungo qualcosa più di mille chilometri .

Ci fermiamo lungo una strada one way che lo bordeggia, scattiamo delle foto ad un mercato in cui vediamo tutto il processo alimentare del pesce pescato, slamato, squamato, affumicato, venduto, mangiato, incontriamo un gruppo di variopinti e variegati fiorentini a girelloni per l’Asia centrale, io mi limito a puciare due dita in acqua mentre Livio e Daniele si gettano a bomba incuranti di una temperatura da collasso cardio respiratorio.

Riprendiamo la marcia, ormai siamo in dirittura, comprendiamo che la direzione è quella giusta e che i caratteri impressi sui pochi cartelli stradali incontrati indicano la meta, il traguardo, l’obiettivo di tutto quello per cui abbiamo sognato, combattuto, lottato, creduto: la Mongolia è davanti a noi, ci parcheggiamo alla frontiera pronti domani all’alba a vivere questo ultimo capitolo dell’ avventura, forse quello più importante !! 

Diamo fondo alle nostre ultimissime riserve di calma, pazienza ed autocontrollo durante le sette ore e mezza inutilmente ed inspiegabilmente gettate alle ortiche presso la frontiera: ha dell’incredibile la lentezza burocratica nell’espletamento delle procedure di ingresso, soprattutto in presenza di gruppi in entrata già registrati e preventivamente previsti .

Non sappiamo assolutamente cosa dire e cosa fare, a metà pomeriggio arrivano tre inglesi con una Punto praticamente sfasciata, parabrezza in frantumi, sospensioni a terra, tiriamo finalmente con loro tre, non più di tre calci ad un pallone quando si avventa sulla rotolante il cane antidroga a maciullarci la sfera .

Siamo inoltre costretti a consegnare il prezioso contenuto di una delle taniche di riserva per non essere accusati di importazione illegale di carburante, con un sorriso smagliante auguriamo loro di bruciare all’inferno tra mille sofferenze e dopo 17580 chilometri varchiamo il sospiratissimo confine, evento che avremmo sinceramente immaginato e sognato in maniera ben diversa.

Facciamo tappa in uno degli ultimi due laboratori mongoli in cui si costruiscono gli archi, esperienza caratteristica, particolare ma visti i prezzi da Fifth Avenue a New York salutiamo cordialmente e proseguiamo verso la meta del monastero di Amarbaiasgalant Khiid e qui proviamo i veri brividi.

Non contenti di tutto quanto visto, provato e vissuto, ci inoltriamo lungo uno sterrato fangoso di 20 miglia che ben  presto si rivela una vera trappola, sono decine le autovetture bloccate nella melma, noi siamo l’unica vettura non 4x4 ma nonostante ciò la C3 si comporta egregiamente, rischia un paio di testacoda, attraversa ruscelli e guada paludi, bloccandosi solo una volta, il panico ci assale data anche la tarda ora ma anche con l’aiuto di altri sventurati quanto mai tranquilli ed assai disponibili usciamo dal pantano ed arriviamo alla meta .

Abbiamo la fortuna di trovarci qua proprio nei due giorni dell’annuale festa del monastero, le radure antistanti sono invase da macchine, tende, accampamenti estemporanei, mangiamo non sappiamo bene che cosa al buio di una capanna ed assistiamo estasiati al lancio di migliaia di lanterne luminose che si librano in cielo come infinite stelle dorate.

Ci svegliamo intirizziti dopo una gelida notte all’addiaccio, mettiamo con circospezione il nasino fuori dalla tenda e ci troviamo nel bel mezzo della Woodstock mongola, con centinaia di autovetture multicolori parcheggiate a perdita d’occhio sulle pendici delle verdissime colline che circondano il luogo di culto, un qualcosa da rimanere veramente senza fiato .

Scendiamo a visitare il monastero, i cui dintorni nel frattempo avevano assunto i tipici contorni del mercatino patronale nei giorni di festa e partecipiamo ad una cerimonia buddista di rara intensità emotiva, con canti, litanie e suoni di corno da parte di una quarantina di monaci, tra cui diversi ragazzini novizi rapati a zero.

Saliamo qualche centinaio di scalini per ammirare un tempio minore e soprattutto un enorme Buddha dorato, meta del pellegrinaggio di migliaia di locali che pregano, cantano, girano i famosi cilindri di metallo, il tutto tra fumi di incenso, offerte alimentari di ogni genere e tanta, tanta spiritualità.

Questo è certamente il giorno dell’avventura, il momento di dare libero sfogo alla vera voglia di Mongolia ed allora tra sabbia, terra, fango e chili di polvere ingerita ci lanciamo tra sterrati sabbiosi e greti di ruscelli, guadiamo torrenti e scorrazziamo tra praterie infinite, orientandoci a caso e godendo di spazi immensi, sembra realmente impossibile trovare sulla terra un luogo ancora così incontaminato ove per ore non incontriamo segni di vita, a parte meravigliosi greggi di pecore, branchi di cavalli bradi e gruppi di mucche al pascolo quanto mai rigoglioso .

Sterminato piacer termina in doglia, diceva il mitico Torquato Tasso sei secoli fa ed infatti dopo aver respirato a pieni polmoni tutte queste emozioni dall’altissimo tasso adrenalinico che rimarranno impresse nelle nostre menti e nei nostri cuori, ci ritroviamo al calar delle tenebre ancora nel nulla, senza punti di riferimento, dopo quasi quattrocento chilometri di fuoristrada ancor senza un traguardo a portata di mano, il tutto come spesso accaduto in questo viaggio con la dieta delle zero calorie, zero grassi, zero carboidrati, zero proteine .

Ci accampiamo veramente dove capita, ignari di geolocalizzazione o punto nave, il risveglio è rapido e sbrigativo  in quanto ci attende l’ultimo strappo, la salita finale che ci porterà all’arrivo, stringiamo i denti, spremiamo le ultime energie meccaniche e fisiche, con grande sollecitazione di sospensioni ed  ammortizzatori, articolazioni e muscolature varie e dedichiamo un’oretta anche al monastero di Endem Zuu, principale riferimento delle per troppo tempo vietate manifestazioni religiose mongole.

Qui vengono adorati  Buddha, Lama e Sirta, in una miscellanea di colori, capolavori e sensazioni mistiche che facciamo veramente fatica ad assimilare nella loro grandiosa pienezza, comunque ammiriamo il tutto con grande rispetto e partecipazione, ci sediamo nel miglior ristorante del luogo, ci vengono offerti latte di jak fermentato e salato con frittelle ripiene di carne di capra, gentilmente preferiamo ripensare ai cracker  ultimo pasto di due giorni fa e puntiamo a nord, tra pianure vastissime punteggiate qua e là dalle bianchissime tende, dette iurta o gher, abitazioni di tutti questi allevatori nomadi che rappresentano ancor oggi un terzo della popolazione mongola.

Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta, dopo 18600 chilometri, 32 giorni di viaggio, quindi