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Nella vita è necessario porsi degli obiettivi, delineare dei traguardi, riproporsi delle finalità, tutto ciò mi sembra la giusta premessa e la corretta introduzione che giustamente crea il preambolo adatto all’inizio di questa nuova avventura proposta a Cristina quasi come fosse una sfida e concretizzatasi con un semplice ed entusiastico sì, immediato e senza alcuna preclusione di genere e di sorta.
Dopo un iniziale sbigottimento dato dalla destinazione tanto imprevista quanto lungamente cullata nei sogni più reconditi della Signora, abbiamo deciso di credere fermamente in questo progetto, di concretizzare quello che al momento della proposta ai primi di febbraio poteva apparire quasi un’utopia se consideriamo le tempistiche di formulazione del programma, delineato spannometricamente circa dieci giorni dopo il primo bacio che avrebbe sancito.
L’inizio di questa marcia trionfale che ci vede al gate di Malpensa con un sorriso da orecchio a orecchio, felici come bimbi in un negozio di leccornie con bonus spesa illimitato o come sportivi trionfanti al cospetto dell’ennesimo disastro europeo della banda bassotti rubentina, in classica casacca da carcerati a strisce bianche e nere.
Ci abbiamo creduto, ci abbiamo sperato, ci siamo riusciti, a dispetto di potenziali difficoltà e inaspettati ostacoli che ci si sono frapposti nel percorso di avvicinamento, venerdì 17 agosto, la data è già di per se tutto un programma, più’ puntuali che mai, anzi decisamente in anticipo, depositiamo valigie e borsoni sul nastro sotto il display dell’Air Italy per varcare il gate che riporta la destinazione regina delle nostre riflessioni turistiche, siamo in volo verso New York, ci teniamo per mano e tocchiamo con un dito l’infinito che ci circonda.
La preparazione dei bagagli è stata sinceramente la fase più delicata del percorso di avvicinamento a questa vacanza, ogni dettaglio è stato studiato nei minimi particolari, ogni indumento lavato, stirato, controllato con il luminoil, chiesto in prestito ai Ris di Parma, per controllarne la composizione molecolare, in cerca d’ipotetiche macchie nonostante diversi capi di abbigliamento abbiano ancora il cartellino di acquisto ben attaccato, tutti gli oggetti e gli accessori fotografati mentalmente e catalogati per dimensione, forma, posizione, nulla è stato lasciato al caso, questa si chiama preparazione perfetta.La macchina volante ex Meridiana è confortevole, nuova, accogliente anche se non troppo spaziosa, il viaggio seppur lunghetto, abbiamo sfiorato le nove ore di permanenza a bordo, non ci ha creato nessun problema tranne visioni mistiche di coltivazioni sterminate di tabacco che vengono desiderate da Cri al pari di una fonte cristallina in pieno deserto, il tutto facilitato comunque da uno steward che mi ha puntato dal primo passo sull’aviogetto e che si prodiga in ogni tipo di favore culinario e favoritistico per deliziare la nostra trasvolata. Atterraggio soft in quel del JFK, tanto famosa porta d’ingresso al sogno americano quanto insignificante hangar di accoglienza ove dobbiamo sobbarcarci lunghissime attese al controllo documenti, con scannerizzazioni oculari e palmari varie, non battiamo ciglio, ci adattiamo alle ferree abitudini locali e raggiungiamo Manhattan dopo un tragitto in taxi a dir poco rallentato da un traffico semplicemente caotico. Taxi driver ci scarica letteralmente e brutalmente davanti al Bentley Hotel dopo aver detto una parola, Flushing Meadows, dicasi una e averci esortato a gesti molto chiari ed emblematici al pagamento di una stratosferica mancia obbligatoria che l’ignaro viandante aveva per lo meno la possibilità di scegliere fra tre scaglioni d’imposta, uno più esorbitante dell’altro.
Mentre su New York calano le prime ombre della sera, come narrato in un’infinità di film e di cartoni animati, solleviamo la tenda della nostra camera e come bimbi sbigottiti davanti ad una visione mirabolante osserviamo le prime luci accendersi nel presepio dei palazzi circostanti e su tutta la campata del Quinsboro Bridge che possiamo praticamente toccare con una mano.
Non ci conteniamo più, buttiamo le valigie in qualche modo ci fiondiamo verso il primo contatto con una città elettrizzante, dal fascino accattivante, dell’attrazione calamitante, facciamo sei passi tra la York, la prima e la seconda avenue, mangiando all’aperto su dei tavoloni in legno, osservando incantati tutto ciò che ci passa davanti, gente di tutti i generi, gusti, abbigliamenti, razze, sentendo i tipici rumori e vedendo i caratteristici colori che tante volte abbiamo immaginato, dal passaggio di un’ambulanza, alle luci delle macchine della polizia, dallo strombazzare continuo di automobilisti nervosi al sopraggiungere di enormi truck con rimorchi infiniti in centro città, non vorremmo smettere di assistere a tutto ciò ma praticamente sono le italiche quattro di notte per cui battiamo in ritirata.
Inizia la scoperta, i propositi sono bellicosi, la voglia di strafare infinita ma una pioggia tanto inaspettata quanto bastarda ci fa rigirare nel lettone anche perché subiamo male il fuso stracotto ed alle cinque ora locale siamo già svegli come grilli parlanti ed anche saltanti . La colazione ci fa capire che la nostra intenzione sarà quella di vivere alla stragrande questa parentesi, cercando in tutti i modi qualcosa di originale, tipico, mai provato, magari anche imprevisto e inaspettato per cui il bagel shop all’angolo della first avenue è proprio quello che fa per noi, con frittellone giganti, ettolitri di acqua sporca fumante che mai potrebbe essere definita caffè e il giusto contorno di umanità varia abbigliata nel più strampalato e incoerente degli accostamenti.Cominciamo a macinare chilometri, le suole delle snickers rispondono molto bene e ben presto raggiungiamo Central Park, il sole buca la coltre nebulosa, il caldo comincia a farsi veramente sentire e allora diamo il via a entrate in tutti gli edifici che attirano la nostra attenzione, dall’elegantissimo foyer del Plaza all’avveniristico show-room di Giorgino Armani disegnato da Fuksas sulla Fifth, dalla visita dolorosa quanto sognante da Tiffany, con prolungata prova di brillocchi e sassetti dal valore inestimabile alla pacchiana Trump Tower dell’attuale presidente che ci ospita, dalla maliziosa e provocante tappa con obbligatorio acquisto con lingua a penzoloni da Victoria’s Secrets al raffinato susseguirsi di grandi marchi e graditissime coccole cosmetiche da Bloomingdale, all’infine graditissimo lunch nella piazza del Rockfeller Center, una vera chicca di serena eleganza in uno dei veri top e must della grande mela. Varchiamo la soglia di St Patrick, cattedrale locale giusto in tempo per assistere all’ingresso degli sposi per una celebrazione tricolore, potrebbe sembrare impossibile, ma sentir le frasi di rito per l’inizio di quest’unione in italiano è una vera delizia per le nostre orecchie. Ormai abbiamo innestato il turbo, fermarsi è impossibile oltre che assolutamente non desiderato, sembrerebbe banale e scontato ma i nostri musi sono quasi sempre rivolti all’insù nonostante ci siano angolini di estremo interesse anche ad altezza occhi, in particolare parchi tipo il Bryant ed il Madison ove indisturbati scoiattoli saltellano tra tavolini e sedie in una realtà che tutto può dirsi che quella di una delle metropoli più caotiche al mondo.Le persone sono gentili, educate, disponibili, la città è pulitissima, il girovagare quanto mai sicuro e privo di ogni timore, arriviamo fino in fondo alla strada più famosa del pianeta, vediamo a coronamento del tutto il Flatron Building, una costruzione a forma di lama alla biforcazione di due grandi arterie stradali e grazie a una commissione dedicata all’abbigliamento e richiesta dal quattordicenne più trendy del territorio lombardo, abbiamo l’occasione e la fortuna di visitare il Greenwich Village, una vera e propria mecca dello stile e della tendenza, con negozi quanto mai eleganti, originali, imprevisti e imprevedibili così quanto forse il cartellino del prezzo per la felpa richiesta, che superava abbondantemente i 350 euro per una serie di fili di cotone intrecciati per formare il disegno di un gorilla figlio di babbuini.Abbiamo fatto i grandi, ci siamo allargati non fermandoci davanti a nulla, non ci siamo concessi pause, riteniamo di aver superato le più rosee prospettive di planning turistici ma alla fine il conto ci, o per meglio dire, mi viene presentato con il narratore brianzolo che non riesce neanche a sbiascicare la tanto vituperata frase Nanna Grande, che già si ritrova nel paradiso della fantasia notturna mentre Cri Cri comincia un interminabile conteggio di pecorelle, agnelli, capretti e Caprotti senza però ottenere null’altro che un continuo e perenne rigiro tra le candide lenzuola.
Grande colpo mattutino di Paolino Paperino che con il suo maccheronico inglese, raccontando la teoria della supercazzola con scappellamento come se fosse Antani, dribbla il controllo in sala breakfast, si accaparra tutta una serie di cibarie atte a una perfetta colazione in camera, sorride compiaciuto e risale ai piani alti dell’albergo per consumare la meritatissima refurtiva alimentare, prima di eludere ogni tipo di sorveglianza, inerpicandosi dotato di un asciugamano a livello del rivelatore del fumo per permettere il consumo della dose mattutina di nicotina alla Signora, in stato di evidente astinenza, alle prese con visioni surreali e con una scimmia impazzita sulla spalla. Il tempo meteorologico non ci sorride, anche stamattina controlliamo sul calendario se ci troviamo a poco più di metà agosto piuttosto che a fine novembre, il cielo è plumbeo, grigio antracite, con qualche sfumatura di nero, non fa nulla, un sorriso e due baci ci permettono di uscire nonostante tutto carichi e determinati, evitiamo mezzi pubblici di varia natura e continuiamo la scoperta di zone non battute dalle grandi fiumane turistiche, attraversiamo isolati molto tranquilli con edifici lindi e a misura umana prima di giungere al Salomon Guggenheim Museum, cui dedichiamo qualche sguardo e sette scatti prima di gettarci anima e corpo al Metropolitan Museum, un capolavoro dell’umanità in cui sono contenuti circa seimila anni di storia, arte e cultura.
Elencare tutto quanto esposto sarebbe impossibile nonostante ci troviamo nella terra di Google, Ibm e Microsoft, possiamo solo apportare una critica per la pessima organizzazione logistica dell’infinità di opere presenti, disposte senza un filo logico e molto più che mal indicate da inservienti tutt’altro che ligi e preparati. Detto ciò è indispensabile sottolineare come ci troviamo in uno dei musei più importanti del mondo, ove sotto un unico tetto sono raccolti strepitosi reperti egizi, meravigliose opere greche, straordinarie vestigia romane per non parlare di quattro o cinque spennellate lasciate su tavolozze e tele da dopolavoristi alle prime armi quali Rembrandt, Tiepolo, Mantegna, Antonello da Messina, Manet, Monet, Degas, Pisarro, Utrillo, Gaugin, Van Gogh, Matisse, De Chirico, Klimt, un certo emergente chiamato Picasso.Usciamo frastornati e sbigottiti da cotanta maestosità, espletiamo in doveroso rito dell’hot dog rigorosamente mangiato per strada e preso da baracchini pestilenziali, scrocchiamo audacemente un passaggio su un autobus che ci porta Downtown, ove ci dedichiamo alla giusta dose e razione di shopping.Prendiamo la metro, vero e proprio girone dantesco non per i pericoli magistralmente descritti in tante pellicole cinematografiche quanto per il caldo infernale che ti si avvinghia appena scesi nei meandri delle sue gallerie, contrapposto al freddo glaciale, insopportabile e infame che ti entra nelle ossa appena varcato ogni esercizio commerciale o turistico.Metà pomeridiana è Little Italy, sinceramente una mezza delusione, tipicamente adatta alle cartoline ricordo e tristemente una bruttissima copia di quanto poteva essere il territorio dominato dalle grandi famiglie di emigrati d’inizio secolo scorso, ma nulla in confronto all’insulsa realtà di Chinatown, priva di ogni spunto degno di nota e al cui confronto la meneghina Paolo Sarpi appare la Croisette di Cannes.
Torniamo con più che piacere in Midtown ove Times Square ci lascia abbagliati dalle sue milioni di luci multicolori, siamo sinceramente senza parole e con seri problemi di deglutizione e respirazione, passiamo un quarto d’ora di reale apnea vedendo uno spettacolo di pixel e watt a dir poco unico e inimitabile, prima di ricevere il colpo finale alle nostre coronarie con salita all’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building, preghiamo lo scimmione di King Kong di spostarsi per farci fare le nostre fotografie di rito e viviamo live una delle prospettive più incantevoli che la maestria e l’ingegno umano possa mettere a disposizione, ammirando ai nostri piedi l’intera metropoli illuminata stile presepe sterminato.Abbiamo forse tirato troppo la corda, e non quella dello sciacquone, rientrando sotto le coperte letteralmente spezzati, doloranti, rattrappiti ma consci di aver vissuto un’altra memorabile giornata che difficilmente scorderemo e che con grande piacere tramanderemo ai posteri anche grazie al fondamentale supporto di questo scritto, ormai universalmente considerato pietra miliare e Vangelo assoluto per qualsiasi viaggiatore.
Questa vacanza voleva essere all’insegna del tutto nuovo, mai vissuto, molto imprevisto ed eccoci pertanto sulle tracce dei leggendari Guerrieri della Notte, eroi di un film cult per generazioni di giovani anni settanta, a cercare di raggiungere Coney Island, tendando di evitare lo scontro con le gang avversarie dei Riffs, dei Rogues e dei Warriors, il percorso è lungo, sconosciuto, misterioso ma arriviamo a destinazione con fare circospetto e guardandoci continuamente le spalle.
Le dritte sul meteo comunicateci dal parentado italico ci avevano fatto ben sperare ma come sempre l’app di Apple è quanto di più inaffidabile possa esistere ed eccoci ancora una volta alle prese con clima tardo autunnale che non scalfisce comunque la nostra incrollabile determinazione che viene ripagata da un pranzo a base di scampi fritti sul walk in legno del lungomare, esperienza molto più che gradita nelle vicinanze dell’enorme luna park che riteniamo, alla luce d’ipotetici ma attualmente sconosciuti raggi solari, possa essere un polo di attrazione sublime per le gite fuori porta dei newyorchesi impossibilitati a raggiungere gli inarrivabili e tanto decantati Hamptons.
Saltiamo sull’accelerato che fa tutte le fermate per far rientro verso Manhattan, cambiamo programma senza dirottare la locomotiva e smontiamo prima che ci salti il nervo vicino al ponte di Brooklyn, non cerchiamo le chewing-gum della famosa pubblicità e rimaniamo incredibilmente sorpresi da Dumbo, non l’elefantino volante quanto un quartierino da sottolineare come assolutamente trendy e molto accattivante, con store all’avanguardia e ristorantini quanto mai invitanti, il tutto nel contesto di vecchi docks portuali magnificamente ristrutturati, ai piedi dei due cavalca East River paralleli molto fotografabili e scenografici ( quanto giri di parole per non ripetere gli stessi termini nel contesto della medesima frase ...) Acchiappiamo un taxi e sopraggiungiamo in zona World Trade Center, molto più che mestizia e tristezza ci attanagliano al solo pensiero della tragedia dell’undici settembre, andiamo con la mente e con una preghiera a tutti gli innocenti sterminati e decidiamo di salire sulla Freedom Tower, ricostruita praticamente sulle fondamenta delle torri gemelle e simbolo della volontà incrollabile di rinascita e ricrescita di questo popolo quanto mai determinato e tenace.Il centesimo piano del One World, su cui ci siamo issati dopo aver ancora una volta capito la loro mania per rispetto delle regole e dell’ordine, ci lascia realmente senza parole, siamo felicissimi di scrutare l’orizzonte a 361 gradi, scattando ed immortalando a più non posso tutto ciò che si trova ai piedi del palazzo più alto degli Stati Uniti, con una gioia che sprizza da ogni nostro poro.
Arrivati di nuovo sul suolo entriamo sbalorditi, anche causa del balordone per una discesa a razzo, nella stazione di Oculus, tanto meravigliosa quanto dall’orrido nome, ultima invenzione di quel genio di Calatrava che si è sbizzarrito nella realizzazione di un hub ferroviario all’interno di uno scheletro bianco neve riempito di un’infinità di negozi e di fantasie senza limiti per tutti quei fortunati che riescono a vivere un’esperienza di passaggio in loco, che certamente rimarrà a lungo nei loro cuori e nelle loro menti.Se l’opinione pubblica pensava a furor di popolo che sarei stato io a esagerare con tappe forzate, tempistiche folli, tour de force massacranti, è necessaria un’immediata rettifica in tempo reale: Cri Cri è una macchina da guerra, alimentata a caffè americano, praticamente acqua sporca per gli amanti della miscela tostata, che non si ferma mai, continua imperterrita, propone indefessa, concretizza puntualmente tutto ciò che si prefigge con determinazione ferrea e volontà incrollabile. Stamattina, finalmente, il sole ci ha detto culo, centuplichiamo le energie e viaggiamo di fantasia turistica mentre consumiamo piacevolmente la colazione in una stanza veramente superior che il Caprotti, con una bieca scusante, è riuscito a farsi assegnare, salendo così a un diciannovesimo piano vista East River e ponte annesso da cartolina ricordo.
Andiamo verso Central Park, teatro e palcoscenico d’innumerevoli film a stelle e strisce, affittiamo due biciclette ed entriamo direttamente in una favola costituita da viali alberati, prati verdeggianti, boschi lussureggianti, laghetti ammalianti nel bel mezzo di una metropoli che offre tutto e ti toglie una sola cosa, il respiro.Passiamo ore a girovagare senza meta, incontriamo runners, ciclisti, famigliole al picnic, cantanti, suonatori, giocolieri, sposini freschi di benedizione, siamo estasiati, è il colpo finale che ci fa salire la grande mela al top delle località da sogno, tutto ci appare incredibile, indescrivibile, inimitabile.Pranziamo alla Boathouse, villa vittoriana affacciata sullo specchio d’acqua solcato placidamente da barche a remi, pensiamo sinceramente di vivere un sogno e con facce quasi inebetite non riusciamo a credere a quello che stiamo provando in prima persona.Usciamo dal parco dopo circa tre ore, ci guardiamo un nano secondo e un cenno di assenso immediato ci fa capire che siamo assolutamente d’accordo nel fare una follia, decidiamo infatti di girare Manhattan su due ruote e mai decisione fu più azzeccata e sensata: è un vero piacere vedere per non dire rivedere blocks ormai praticamente abituali, girovagare per avenue con una facilità irrisoria, stando solamente attenti a non perdere una prospettiva e un’inquadratura di una metropoli che ci sta facendo impazzire. Arriviamo addirittura all’High Line, praticamente un capriccio che il Caprotti si era messo assolutamente in mente di realizzare, trattasi di due chilometri sopraelevati di una vecchia ferrovia in disuso che con un processo di riconversione e riqualificazione urbana è stata trasformata in una passeggiata ecosostenibile di grandissimo effetto emotivo nel quartiere di Chelsea, lontano dalle classiche rotte delle mandrie di turisti stereotipati.Anche qui incontriamo tantissimi italiani e questa volta è veramente un piacere in quanto un po’ di sano menefreghismo, lassismo, fancazzismo tricolore non è per nulla male rispetto all’eccessivo perfezionismo e perbenismo ( talvolta ipocrita e di pura apparenza) di questo popolo apparentemente dedito al rispetto assoluto e totale di ogni regola e legge, al punto da poter essere da me paragonati a quei disumani, inutili e decerebrati dei giapponesi .Lasciamo la grande mela, non ci voltiamo neanche per dare un’ultima occhiata, siamo tristi, abbattuti, sconsolati, questa città ci lascerà un segno indelebile nelle nostre menti e nei nostri cuori, la attraversiamo ancora una volta per andare a ritirare la macchina che ci permetterà di iniziare il nostro tour per l’East Coast, ma un velo di malinconia offusca il nostro procedere, ieri sera abbiamo concluso alla stragrande la nostra permanenza in loco, sfidando tutte le leggi di resistenza fisica e i timori per essere gli unici visi pallidi sulla metropolitana che, ben oltre mezzanotte, ci riportava sulla 62th street dopo una cena indimenticabile sotto i due ponti, il Brooklyn e il Manhattan, per vedere il panorama mozzafiato di una New York riccamente illuminata , mai e poi mai addormentata.Usciamo al volante di una mega berlina targata Nissan, direzione sud ovest per raggiungere Filadelfia, la strada pareva apparire semplice e rettilinea ma un paio di grossi impedimenti orientativi ci rallentano drammaticamente il procedere, facendoci perdere due ore di tempo e molta della calma da sempre nostra alleata. Talvolta le tappe fuori dalle mappe possono apparire un salto nel vuoto, in quest’occasione invece siamo veramente fortunati, Philly è molto piacevole, attraente, ben organizzata e soprattutto splendidamente assolata, ci stiamo circa tre ore apprezzandone comunque atmosfera e raffinatezza, uniche note dolenti il parcheggio a costo da Re Mida e l’inspiegabile gran quantità di ragazzi bianchi homeless che trovi agli angoli delle strade, non certamente partecipi del grande sogno americano .Buttiamo una rapida occhiata alla celeberrima scalinata del museo dell’arte, resa famosa dalle gesta cinematograficamente eroiche di Rocky Stallone e in meno di due ore raggiungiamo Baltimora, ma questo sarà un nuovo capitolo, ora per la prima volta in vita mia, esiste sempre anche nella realtà, andrò alla ricerca di un giaciglio notturno senza aver prenotato, speriamo nella good luck, a domani per giudizi e commenti.Va bene lasciare le cose al caso, farsi trasportare dall’onda dell’entusiasmo ma la dopo cena a Baltimora è stato decisamente un salto nel buio: la pappa nel forse unico ristorante aperto sulla baia ( sembra di essere agli orari da coprifuoco della confederazione elvetica) è stata più che positiva, con la tipica cameriera americana estremamente sorridente e chiacchierona mentre quella che doveva apparire come la piacevole ricerca dell’albergo si è rivelata un terno al lotto, con infiniti girovagamenti di quartieri (e non solo di quelli) popolati da una fauna che definire elitaria sarebbe un eufemismo riduttivo, praticamente vediamo solamente volanti della polizia con lampeggianti accecanti in ogni angolo e una serie di zombie nei paraggi di stamberghe che non sappiamo sinceramente se riusciranno a non crollare entro fine settimana.Alla fine ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti ad arrivare sani e salvi all’interno della civiltà e finalmente a coricarci, sotto le insegne del Radisson troviamo rifugio, ripromettendoci di essere sicuramente più perspicaci e meno audaci nel voler sfidare il fato in città mai visitate, in una lingua non proprio masticata alla perfezione, in orari da ritirata mandatoria .Stamattina ci concediamo uno sfizio, in una città illuminata da una luce accecante, nel contesto di una baia con pontili si commerciali ma decisamente accoglienti e fotografabili, rispondiamo al richiamo delle sirene gastriche e ci premiano per le perigliose peripezie notturne con una colazione american style o meglio con una serie di schifezze indescrivibili che potrebbero rendere felice qualsiasi diabetologo . Una stella solare calda, luminosa al limite dell’accecante ci accompagna fino a Washington che raggiungiamo dopo neanche un’oretta direzione sud ovest lungo autostrade ampie, sicure, ben poco trafficate, il tablet ha finalmente ripreso a funzionare dopo gli scherzi da cardinale che non pochi problemi ci ha creato nel pomeriggio di ieri, permettendoci così di raggiungere con precisione millimetrica la locanda che ci ospiterà nelle prossime 48 ore .Washington è imponente, maestosa, molto altezzosa, enormi viali sono contornati da splendidi edifici che ne sottolineano importanza e valore, noi giriamo praticamente in ogni loco, giusto per non perdere l’abitudine riusciamo a sbagliare orientamento anche qui, ma una sana e necessaria risata ci porta a dimenticare ogni cosa e a maledire l’incapacità di acume toponomastico dello scrivente .Forse non ci rendiamo conto di dove siamo, crediamo probabilmente di vivere un sogno o meglio un trip stile i purtroppo fin troppi zombie alienati che vediamo girovagare senza meta esistenziale, ma ci svegliamo tra le quattro mura del più bel albergo ove il Caprotti risiedette nel corso della sua fin qui esistenza, il Grand Hyatt è semplicemente galattico, ho paura di sentire la direzione chiamarmi per dire che c’è stato un mistake, error, fake bill, per il momento comunque mi godo i relativi confort e benefit di una struttura pazzesca ove ci costerà più il parcheggio che la reale permanenza, le vie dì INTERnet sono infinite, tanto quanto a volte i suoi misteri .Usciamo carichi come delle molle, il cielo è blu dipinto di blu e noi siamo felici di stare quaggiù, facciamo colazione in un’elegantissima catena di bakery and boulangerie di tipico stampo francese con bill and addition da capogiro, saltiamo su un bus e ci scapicolliamo a Georgetown, quartiere decisamente di grande effetto lungo il Potomac, storico fiume attraversante la capitale, ove sembriamo vivere una realtà fuori da tutto il contesto statunitense, con un’atmosfera rarefatta, una tranquillità contagiosa, un’esistenza invidiabile grazie a corsi alberati, strade sicure, casette stile vittoriano anglosassone, negozi raffinati, persone serene.Decidiamo poi di visitare il cimitero militare di Arlington e qui sinceramente molto più che una riflessione deve essere dedicata al rispetto, alla commemorazione, al ricordo di tutti i caduti nelle varie guerre che hanno visto la perdita di centinaia di migliaia di soldati americani, riposanti su queste verdi colline, in una sterminata distesa di croci bianche che affermare mettano la pelle d’oca sarebbe come minimo riduttivo.
Torniamo in città, non possiamo esimerci dal visitare il mausoleo dedicato a Lincoln, padre fondatore della nazione, con relativa mastodontica statua in marmo dominante l’intera metropoli e camminando lungo specchi d’acqua che riflettono l’obelisco, fino alla costruzione della Torre Eiffel la struttura più alta del mondo, raggiungiamo il memoriale dedicato ai veterani della guerra in Vietnam, prima di trovarci di fronte, a debita per non dire eccessiva distanza, dal retro della Casa Bianca, ancor meglio della stranota Sala Ovale, che si presenta tutto sommato meno maestosamente di quanto si potesse immaginare.Concludiamo l’ennesimo tour de force camminando per il Mall, straordinario, immenso e maestoso viale fiancheggiato dai principali edifici storico-culturali tra i quali la National Gallery, lo Smithsonian Museum aerospaziale, il museo di scienze naturali, da sempre teatro di raduni oceanici con centinaia di migliaia di persone che lo hanno affollato, ultimo evento memorabile i festeggiamenti per il Triplete neroazzurro. Serata che fa alzare notevolmente il gradimento della tappa grazie alla visione del Campidoglio, di Capitol Hill, del palazzo del potere, della sede di Camera e Senato, in poche parole di chi comanda il mondo, una struttura imponente, maestosa, grandiosa che illuminata a giorno in una notte particolarmente stellata ci fa comprendere la grandezza di questo popolo e soprattutto il loro attaccamento alle istituzioni, alle regole, al rispetto civile.Un paio di piccole pecche in tutto questo splendore: hanno inventato di tutto e di più, sono all’avanguardia in molti campi e avanti anni luce in altri ma sinceramente potessero morire in questo istante per il loro tassativo bisogno di aria condizionata, in ogni luogo si gela, s’iberna, si rimane assiderati, mentre appare per lo meno esagerata la loro caccia alle streghe del fumo, gli amanti del tabacco e della nicotina vengono additati e posti al bando, per non dire alla gogna dell’opinione pubblica, non si può fumare praticamente in nessun posto, talvolta anche all’aperto ci si deve allontanare una decina di metri da particolari edifici e strutture indicate, per poi vedere un popolo di avvinazzati, ubriachi, sversi, piegati ... misteri della fede !!Lasciamo la carissima, nel senso di costosissima Washington con la massima calma, il Caprotti è praticamente irriconoscibile, prende tutto con una serafica indole, procedendo con movimenti flemmatici, cadenzati e intraprendendo il susseguirsi degli eventi con un approccio quanto mai soft.Le highways sono larghe, scorrevoli, si snodano tra boschi meravigliosi, unico problema ogni tanto cambiano improvvisamente di numero e conseguentemente l’orientarsi non è facilissimo ma oggi non sbagliamo un colpo, abbandoniamo il District of Columbia, attraversiamo Maryland, Delaware ed entriamo nel New Jersey dopo aver vissuto l’esperienza di entrare in un Walmart, sembrerebbe impossibile ma fare visita ad un supermercato di questo tipo è accuratamente da menzione assoluta.Le dimensioni del punto vendita sono infinite, sterminate, non individuabili, i prodotti innumerevoli, le varietà incalcolabili ma la cosa più assurda è la dimensione delle porzioni: la scatola degli hamburger è da 32 pezzi, il formaggio a scaglie per la grigliata pesa quasi tre chili, le cosce di pollo sono minimo 15, le bevande hanno colori improponibili e le relative varianti praticamente sconosciute, con il risultato di non capire come uno scheletro umano possa reggere il peso della massa grassa che vediamo debordare praticamente da ogni individuo incontrato, siamo attoniti, sbigottiti, basiti, non sono obesi, sono semplicemente pachidermici...Arriviamo ad Atlantic City e qui scatta il secondo campanello d’allarme che questa volta si tramuta in una sirena rumorosissima: giriamo sette o otto hotel alla ricerca di un tetto per la notte ma le condizioni delle strutture, lo squallore, la depressione, lo sporco, la trascuratezza, il fetore che le caratterizza ci fanno rabbrividire, se poi aggiungiamo che il costo è molto abbondantemente in tripla cifra non sappiamo come faremo a digerire la cena serale.Non riusciamo a raccapezzarci, non capiamo come sia possibile, il tutto ha veramente dell’incredibile, chiudiamo gli occhi, crediamo di essere in un film dell’orrore e ci fiondiamo alla velocità della luce verso Atlantic City, che nella sua inventata, vuota ed asettica realtà ci permette comunque di rimettere piede nel mondo civile, la cena al Bungalow Beach è veramente di qualità sul boardwalk, costituito da una passeggiata pedonale in legno, con aggiunta di spettacolo pirotecnico ad hoc in nostro onore.
Per dover di presenza più che per piacere o interesse entriamo sia al Tropicana che al Ceaser Palace, casinò mastodontici, sberluscichenti, chiassosi, girovaghiamo al loro interno molto delusi al pensiero di un’umanità tristemente attaccata a un sogno di vincita praticamente inesistente, all’inseguimento di una fortuna che ovviamente non sarà mai cieca, in uno spaccato della società popolato da figure tutt’altro che attraenti e affascinanti, a essere buoni e educati nel giudizio .Pensavamo fosse stato un brutto sogno ma il risveglio nel regale motel ci ha dato purtroppo conferma di quanto stiamo vivendo in queste ultime dodici ore, carichiamo i bagagli che si erano rifiutati loro stessi di voler prendere aria in un simile contesto, confermiamo il gettone di presenza al Bungalow on the Beach, stessa apprezzabile location ad Atlantic City della sera prima e con una brezza oceanica di grande sollievo colazioniamo foot on the sand sperando di cancellare dalla nostra memoria questo infortunio di percorso, avendo avuto comunque la magra consolazione di capire poi che la tariffa weekend è ovunque semplicemente stellare, pur per realtà inqualificabili. La giornata è dedicata alla cosiddetta tappa di trasferimento, dobbiamo effettuarla e allora armati di tanta, santa pazienza risaliamo verso nord, costeggiamo New York che, offesa per non averla salutata come meriterebbe, ci blocca in un ingorgo di dimensioni apocalittiche, facendoci perdere un paio d’ore sulla tabella di marcia, comunque per sommi capi rispettata.
Arriviamo a Newport mentre non vediamo più un palmo davanti ai nostri occhietti stralunati, Cri è stravolta ma non ha mollato un attimo, guidato dal primo all’ultimo minuto senza dare alcun segno di cedimento, giriamo per diritto di ospitalità, ceniamo in un bellissimo locale lungo il waterfront e diamo l’arrivederci alla mattina successiva quando abbiamo l’occasione di apprezzare il tipico paese del New England, raffinato, curato, stiloso, elegante, perfino snob, facciamo una colazione semplicemente da vita senza un domani su un meraviglioso pontile, incredibilmente con la soluzione take one get one free, non esageriamo, molto di più e dalle nostre posate passano pancakes, waffels, muffins, scrambled eggs, salmone, patate al forno, macedonie, succhi di frutta, tazze di caffè a go go’s ...Altro strappo stradale e in quasi due ore e mezza arriviamo a Cape Cod che, a differenza di quanto avessimo ipotizzato, è una penisola lunga un centinaio di chilometri, per loro le distanze sono il nulla, senza un vero e proprio centro abitato, un agglomerato urbano, un punto di riferimento avvistabile e contrassegnabile sulla mappa, il più è passato, riteniamo in un modo o nell’altro di aver macinato abbastanza miglia e la ricompensa è un cottage da mille e una notte a Provincetown, il Masthead resort è curato in ogni minimo dettaglio, un vero gioiello che ci toglie il fiato, con prato direttamente a contatto con pontile privato, affacciato sulla distesa d’acqua marina che possiamo sinceramente toccare con mano direttamente dalla camera.
Raggiungiamo grazie ad un gentile servizio dell’addetta alla reception il villaggio e rimaniamo attoniti, sbigottiti, esterrefatti al cospetto di ciò che si para davanti alle nostre pupille: riteniamo di essere di vedute piuttosto ampie, di avere un orizzonte mentale a largo spettro ma non crediamo al messaggio che le cornee inviano alla nostra massa cerebrale, vedendo solo ed esclusivamente coppie omosessuali, nessun problema di sorta alcuno ma a tutto riteniamo dovrebbe esserci un limite.Ci avevano accennato il concetto di grande ritrovo LGBT, a voi sterminata massa di lettori di questo post un giro di giostra su Google per capire il significato di quest’acronimo ma il constatarlo ovunque e in tutte le situazioni ci appare per lo meno “bizzarro”, andiamo a mangiare il must di tutta questa regione, le celeberrime aragoste, che comunque hanno il loro salato retrogusto economico, e passeggiando per le vie del centro continuiamo a incontrare una massa variopinta e diversificata di esseri di sesso maschile avvinghiata a esemplari dello stesso cromosoma, una coppia in particolare just married è l’emblema e il simbolo di questo loro approccio open mind e sinceramente non solo quello ....Giornata semplicemente paradisiaca, lo sforzo consiste nel compiere i venti passi di numero che ci separano dal pontile e dalla spiaggia, che subisce un moto ondoso dominato da maree molto elevate, per cui ci ritroviamo due volte al giorno a vedere uno spettacolare contrasto tra specchi d’acqua e barche improvvisamente in secca, ci spostiamo in una piscina con musica a palla, ove assistiamo al trionfo del degrado e, a nostro modestissimo parere, del declino assoluto del buon gusto e del buon senso, con effusioni tanto sfacciate quanto sceniche da parte di maschioni tatuati, barbuti, nerboruti ma dalle movenze estremamente effeminate.Proviamo ad analizzare dal punto di vista meramente sociologico con chi abbiamo a che fare: ‘sti americani, per meglio dire statunitensi, senza generalizzare ma giusto per dare un parere di massima, sono solitamente affabili, disponibili, accoglienti, sono scazzatissimi nel vestire, parlano e ridono a voce molto alta, mangiano da mattina a sera, notte compresa (non osiamo pensare quanto bevano), nei dodici secondi in cui abbiamo acceso la televisione i programmi sono insulsi e le pubblicità demenziali, hanno uno straordinario orgoglio di appartenenza alla propria nazione, sono quanto mai ligi e rispettosi delle regole, forsanche perché sicuri della certezza della pena in caso di sgarro, giocano d’azzardo, ove ovviamente possibile, in maniera ossessiva compulsiva, continuano imperterriti a non installare il bidè, hanno praticamente tutti una taglia che definire iper extra over sarebbe riduttivo, non sanno cosa voglia dire olio e non conoscono l’acqua con le bolle, chiudono i ristoranti alla sera quando nella Magica Italietta non sarebbero neanche aperti, suonano in macchina per ogni illusoria e pretestuosa ragione riguardo il codice della strada, aggiungono su ogni cosa tasse variabili di stato in stato che creano irrisolvibili problemi nel budget degli ignari turisti, hanno autostrade che cambiano nome e numero passando da 95 a 295 per poi diventare 395 e infine 495 senza un vero perché ( l’ Autosole è una e unica per sempre nei secoli ), dicono 61 volte sorry nell’arco di sessanta secondi, sono un mix incredibile di stirpi provenienti da tutto il mondo che continuano a credere, o per lo meno sperare, nel golden dream .Oggi giornata semplicemente perfetta, cielo cobalto, nessuno dicasi nessuno a portata di vista, alle nove ci siamo catapultati sul pontone, ce ne siamo appropriati, speriamo di poterlo usucapire, non abbiamo mosso un muscolo, ci siamo lasciati cullare dalla brezza marina, dalla marea montante, da una musichetta di sottofondo da brivido caldo e abbiamo creato il layout ideale per uno shooting fotografico che ha dato risultati di ottima levatura professionale, sarà per la location, sarà soprattutto per la protagonista in forma smagliante.
Si dice che la fine di un viaggio coincida con la partenza del successivo, le idee sarebbero tante, i propositi numerosi, le fantasie infinite, per il momento poniamo termine a quest’avventura americana con un risveglio dato da una lama di sole infuocato che si riflette sulla superficie marina prima di conficcarsi nelle nostre palpebre, affascinate da un paesaggio che resterà a lungo nella nostra memoria, saltiamo letteralmente e fisicamente sulle valigie per poter riporre i 74 capi di abbigliamento, non uno in più non uno in meno facenti parte del guardaroba dì Cristina, ammiriamo ancora una volta la splendida realtà del Massachusetts che ci ha colpito per bellezza, eleganza, accoglienza, raffinatezza, un saltino in zona sarebbe proprio il caso di rifarlo.
Muso della giapponesina risolto verso sud, non abbiamo bisogno di marchingegni elettronici, ormai ci orientiamo come tuareg e raggiungiamo New York dopo un tranquillo ma piuttosto lunghetto tragitto, ormai sono passate quasi sei ore dalla partenza, ne abbiamo ancora diverse a disposizione, azzardiamo un avvicinamento al cuore pulsante di Manhattan ma ancora una volta ci scontriamo con il folle traffico della cintura esterna della città, ci accordiamo con un battito di ciglia per un immediato dietrofront e facciamo rotta verso l’aeroporto ove cominciamo un sunto mentale e psicologico di quanto abbiamo vissuto, goduto, ammirato, apprezzato in queste meravigliose e sicuramente indimenticabili due settimane fly and drive around the East Coast.